“L’alto e il basso” – un capitolo

Era una ventosissima mattina di primavera, e la tramontana rafficata sembrava essersi alzata per dar soddisfazione al  Regime, trasformando stracci ricamati appesi ad aste in una mareggiata di bandiere. Ai piedi della fortezza su cui troneggiava questo spettacolare tripudio di patriottismo e di propaganda, carnevale delle divise, stavo io, figlio della lupa di otto anni, lievemente infreddolito, conscio del mio ruolo di piccolo milite nel portamento, ma con il sorriso stampato sulle labbra, la bocca estaticamente spalancata e i muscoli del collo indolenziti per il troppo guardare in alto.

Eravamo in molti, della mia età, vestiti come me ed altri più grandi con divise simili, ma meno ludiche, meno innocenti, che puzzavano già di guerra.  Una macchia nera alla base di una montagna di pietra color sabbia, come tante formiche, formammo rapidamente delle file, per raggiungere la sommità del formicaio, lassù, dove sventolavano i vessilli.

Prima di mettermi in marcia dovetti rinunciare per qualche secondo al mio rigore marziale per accontentare le premure materne che, per fortuna, si limitarono alla chiusura degli ultimi bottoni della giubba. Nel farlo, credo senza sorridere, mi passò un dito sulle labbra, ma così rapidamente e delicatamente da non farmi percepire altro se non il gesto, e disse:

– Cusse ti ghè, che u l’è da sta matin quandu ti te desciò che ti rii? (cos’hai, che è da questa mattina quando ti sei alzato che ridi?)

– Ninte, ma’ (Niente, mamma), risposi, sforzandomi di trasformare quella maschera d’allegria in una più confacente al ruolo di un soldato del fascismo pronto all’estremo sacrificio, dolce e decoroso che fosse, per l’amata Patria.

Ma dentro di me continuavo a sorridere, perché tutto mi sembrava perfetto: la mia divisa e le bandiere e il sole che brillava forte, e il mare che non vedevo, ma sapevo essere là, oltre la fortezza, ad aspettarci, e la fortezza stessa, gigante senza tempo che ci accoglieva nelle sue viscere, e ancora i nostri genitori, visti dall’alto che scorgevamo voltandoci per qualche secondo durante la salita, attenti a non farci scoprire dai caposquadra in una palese violazione dell’ordine di marcia; e perfetta financo sembrava l’acciaieria che fumava dalle sue ciminiere come un gigantesco transatlantico arenato tra il porto e la fortezza. Mio padre, sapevo, era lì dentro, passeggero e fuochista di quell’enorme balena meccanica spiaggiata, che soffiava fumo denso dai suoi sfiatatoi.

Perfetto, in mezzo a tutta questa perfezione, anzi in testa a tutto, come era in testa al nostro corteo, c’era un ragazzo, l’essere più bello, leggiadro, intelligente e fascista del mondo. Io ero lì, portavo la mia divisa, spazzolata di fresco, con le scarpe lucidate con lo sputo di mia madre, ed il sorriso stampato che proprio non voleva lasciar posto ad un espressione marziale. Io ero lì e tutti sapevano chi era quel ragazzo e quando mi guardavano, pensavo, non poteva non pensare a lui, e il cuore mi si gonfiava e mi esplodevano dentro gioia e orgoglio. Piccolo fra i piccoli mi sentivo più grande.

Arrivati al colmo della salita, ci incamminammo fra i bastioni, in un largo solco, anch’esso dominato da bandiere, ma, con soluzione d’effetto ancora maggiore, alcune fiaccole erano state posizionate all’interno di nicchie oscure che si aprivano fra le pietre ad illuminare le budella segrete del gigantesco forte, dove nei secoli i prigionieri delle fazioni più disparate avevano pianto per la libertà. Eravamo stati istruiti nei mesi precedenti su quelle storie e quelle fiammelle ci apparvero come anime, anime sante della nostra religione laica, pronte a guidarci verso il radioso futuro della nuova Italia voluta dal Duce e dalla sua rivoluzione.

Come nel fondo di un canyon, avanzavamo sotto le grandi mura. Un torrente che erode la pietra secolare. Inarrestabile. I nostri passi di marcia e i nostri cori rimbombavano fra le pareti. L’effetto era onirico.

Quando la testa del corteo arrivò sul dosso dal quale poi ci saremmo gettati verso il mare, il ragazzo in testa al corteo, approfittando della posizione rialzata, voltò la testa buttando lo sguardo verso le retrovie. Il gesto di un secondo, quasi impercettibile. Ma io lo notai. Non potevo non notarlo. Guardai i miei compagni e compresi, senza una parola, che anche loro avevano visto, anche loro avevano capito. Era me che quel ragazzo cercava con lo sguardo.

Giungemmo anche noi figli della lupa in vetta al dosso; da quella posizione, il mare, a meno di duecento metri, giungeva finalmente a coprire il suo ruolo di quarta parete di questa meravigliosa rappresentazione. Era scuro come piombo e teso, piatto ma non domo, come un vecchio burbero che, anche mentre fuma, placido, la sua pipa, fra le labbra mormora bestemmie.

Abbandonammo la fortezza lasciandoci alle spalle la polveriera e le enormi cisterne per l’acqua potabile scavate nella pietra ed ormai secche da secoli. Il passaggio Trento e Trieste costeggiava la spiaggia da un lato e il bastione sud ovest della fortezza dall’altro. Era, ed è, una rampa: quel giorno dovemmo trattenerci dal percorrerla a rotto di collo perché era proprio alla base di quella rampa che stava la meta di quella nostra marcia, il motivo stesso per cui quel giorno aveva acquisito il nome di celebrazione.

La marea umana non puntò però dritta all’obiettivo. Il passaggio Trento e Trieste sfocia nella piazza sul mare con la grande statua equestre di Garibaldi. Il programma prevedeva che tutto il corteo si assembrasse frontalmente alla statua, lasciandosi il mare sulla destra e la città, presumibilmente muta e deserta per l’evento, a sinistra. Alle spalle del monumento all’eroe dei due mondi, stava la mastodontica costruzione coperta da grandi teli bianchi arricciati a soffietto. Un muro di meringa.

All’improvviso, come ad un comando, cessarono i brusii. La banda attaccò Giovinezza. Scattammo tutti sugli attenti. I notabili che avevano guidato il corteo al fianco del ragazzo, si impietrirono nel saluto romano e in quello militare. Lo stesso Garibaldi, impietrito nella pietra,  sembrò abbandonare le redini e portare una mano al capo.

Suonarono poi dei tamburi (mi sembra assurdo oggi, ma il ricordo è troppo nitido, non posso averlo sognato) e alle prime battute, inaspettatamente, fuori tempo, non so se per errore o per una scelta poco fortunata del climax, il telo di meringa calò senza che ce lo aspettassimo, con una tensione sfalsata. Avvertimmo anche noi piccoli questo scarto, ma fu questioni di pochi secondi. Il telo cadde, accartocciandosi su se stesso, e dalle sue macerie spuntò un parallelepipedo nero, nero come le nostre divise, quelle dei ragazzi più grandi, del ragazzo in testa al corteo, dei notabili al suo fianco. Nero come il nostro futuro.

Quell’edificio nero era l’Opera Nazionale Balilla. La casa del balilla. La nostra casa. La casa della gioventù che avrebbe eternato il fascismo. Quel mostro nero eravamo noi. Un monolite venuto dal futuro per darci futuro. L’avanguardia dell’avanguardia, capolavoro dell’architettura realista, al servizio del Regime.

Entrammo. Ordinatamente, ma senza un’organizzazione rigorosa a guidarci. Si voleva che fosse, in qualche modo, una festa. Occupammo lo stanzone: nulla di più infatti era, se non una grande palestra. Alle pareti quadri svedesi, negli angoli, appartati, cavalli con maniglie. In fondo allo stanzone un palco addobbato con ghirlande tricolori e fasci littorei. Restammo in attesa.

Il microfono gracchiò una seconda esecuzione, questa volta da disco, di Giovinezza. Si ripeterono le stesse scene di catalessi, ma meno convinte rispetto alla rappresentazione all’aria aperta. Garibaldi, assente giustificato, impietriva da par suo. Io, nell’attesa.

Poi, uno dopo l’altro, il Podestà, gli eroi della marcia su Roma, quelli della Grande Guerra e qualche piccolo burocrate locale, salirono sul palco ad elogiare la gioventù fascista, ad elencarne i doveri e le responsabilità. Il mio cuore vibrava ogni volta che un discorso finiva, nell’attesa.

E l’attesa finì. Il ragazzo che guidava il corteo, per il quale mi sentivo più grande fra i piccoli, che mi aveva cercato con lo sguardo in cima al dosso sul torrione, salì sul palco. Calò il silenzio più feroce. Il ragazzo sistemò i fogli sul leggio, producendo un lieve sfregolio urtando il microfono. Con naturalezza poggiò entrambe le mani sul palco, alzò il mento, gonfiò il petto. Con la stessa naturalezza, poi, sorrise, riportò le mani lungo i fianchi, guardò prima a destra, poi a sinistra. Sorrise ancora una volta, un sorriso dolce che non fece rumore in quello stanzone spoglio stracolmo di uomini donne e bambini in silenzio assoluto. Sorrise e incominciò.

Era il 14 Maggio del 1933, un sabato, sabato fascista. Mio fratello, Tommaso Boero, fissò un punto indefinito oltre la porta dell’ Opera Nazionale Balilla, appena inaugurata, e declamò una poesia di sua composizione, senza mai abbassare lo sguardo sui fogli poggiati sul leggio. Io, letteralmente, tremavo. E’ incredibile come tutto, di quel giorno, mi sia rimasto così appiccicato alla memoria, compresi i profumi (salsedine, aneto, carbone, sudore). Di quella poesia, invece, ricordo soltanto che fu come un colpo di baionetta, come una carezze, come una scottatura, calda e gelata.

Cadde l’ultimo verso, e fu un fiocco di neve al rallentatore, poi ancora silenzio e poi, ancora, un fragoroso applauso. Mi guardai attorno. Vidi padri in camicia nera portarsi il fazzoletto al naso o nascondere con il dorso della mano la commozione. Le donne, giustificate al loro ruolo dai secoli, si commuovevano impunemente.

Era un mondo in cui la parola aveva ancora un peso. E mio fratello sapeva usare le parole meglio di chiunque altro. Aveva dodici  anni, oggi sarebbe considerato un bambino, allora lo era poco di più: ma nessuno, quel giorno, si era pentito d’avergli concesso l’onore dell’ultima parola in un  evento così importante. Le parole di mio fratello arrivavano da dentro ognuno di noi. Era così preciso, che sembrava fosse stato lui a metterli , dentro ognuno di noi, quando lo sentivi, quei nomi, quei battiti, quelle fatiche.

Ed invece era una levatrice. Come una spugna, assorbiva le nostre speranze e le nostre paure, dal bambino alla vecchia, e ce le buttava in faccia. Il fascismo faceva da cornice, gli dava delle suggestioni. Metafore, perlopiù. Un pentagranna.

Ed io? Capivo, allora? Tutto? Qualcosa?

Per capirlo dovrei togliere, togliere tutte le parole e i concetti, le esperienze, il dolore, la consapevolezza, vera o presunta, le abitudini e la familiarità con la caducità: insomma, la mia vita passata da allora. Dovrei sbucciarmi, strato a strato, come una cipolla per arrivare al cuore e scoprire che la cipolla è tutta buccia e niente più. Sentivo, allora, qualcosa come un amore. Una passione vibrante che fa ridere, e tacere. Forse era l’infanzia, forse era il carnevale del fascismo con le sue divise. Ma una cosa è certa: sacerdote di quel fuoco era Tommaso Boero.

Quella sera, a cena, ero un torrente in piena. Parlavo, parlavo, mi alzavo da tavola e mimavo, mia madre rideva, mio padre meno. Tommaso sembrava in soggezione, disse qualche parola generica, lontano dall’oratore di qualche ora prima. Rimasi deluso. Mio padre non alzò la testa dal piatto. Alle mie insistenze, per un bis della poesia che aveva squassato mezza città, mi diede di gomito, quasi violentemente. Non capii. Finito il piatto, finito il vino, mio padre alzandosi da tavola per fumare la solita mezza sigaretta sentenziò:

– Te fre u l’è u megiu Balilla (Tuo fratello è il migliore fra i Balilla), e non sembrava per nulla commosso.

 

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...