Quando chiedevano a Mario Monicelli quale fosse stato il più grande attore che aveva diretto il toscanaccio rispondeva senza indugio: «Alberto Sordi». Ricordava in particolare la sua capacità di entrare immediatamente in un personaggio poco prima del ciak, come gli aveva visto fare ad esempio sul set de La grande guerra, cambiando in pochi secondi espressioni e intenzioni, dopo una veloce occhiata allo specchio. Se La grande guerra è stato probabilmente il film che ha sancito la consacrazione, anche per la critica, di Sordi come attore anche drammatico, i suoi primi passi nel campo della recitazione per palati fini erano stati però decisamente fallimentari. E anche in quel caso c’entrava, in qualche modo, la guerra.
Nel 1936, a 16 anni, Sordi abbandonò gli studi all’istituto di Avviamento Commerciale della sua Trastevere e si trasferì a Milano dove si iscrisse all’Accademia dei Filodrammatici. Quello che successe nei pochi giorni di quell’esperienza milanese si perde nella leggenda: l’unica fonte del racconto è lo stesso Sordi che riportò l’aneddoto molti anni dopo, ormai scomparsi i possibili testimoni. Quindi famo a fidasse, come direbbero a Trastevere. Insomma, la storia andò più o meno così: dopo qualche giorno all’Accademia il giovane Sordi fu preso da parte dall’insegnante di dizione che, educatamente, ma con fermezza, gli disse: «Senta Sordi, lei è bravo, ma non credo che questo possa essere il posto giusto per lei. Lei dice “guera”, si dice “guerra”». A quella reprimenda sulla sua pronuncia romanesca Sordi, immortale, rispose: «La guera con una ere o con due ere sempre guera è».
Ho ripensato spesso a questo aneddoto negli ultimi giorni. C’ho pensato perché da poco più di una settimana tutti, dall’intellettuale all’ortolano, proviamo a capire, ma chi più, chi meno brancolando. Quella parola – guerra – ha sostituito all’improvvisto altre parole che avevano monopolizzato i nostri discorsi e pensieri e sentimenti negli ultimi due anni. Parole diventate ormai piume, come positivo, quarantena o tampone. Ma anche altre, piombo, come libertà o morte. Certo, in molti avevano parlato anche di “guerra al virus” e per molti mesi c’era stato il coprifuoco e c’erano state le bare di Bergamo sui mezzi militari, ma insomma alla fine la narrazione prevalente, quella alta e quella bassa, era stata: non scherziamo, stare chiusi in casa sul divano non è come attraversare l’inverno russo, moschetto in spalla, con le scarpe di cartone. La guera è guera.
E ora l’inverno russo, sulle soglie della primavera, è arrivato. È arrivato per gli ucraini, sotto forma di bombe che piovono dal cielo e colonne di carrarmati che si muovono quasi al rallentatore, ma inesorabili. Sono arrivati i morti, a centinaia, forse migliaia: migliaia come quelli del virus, ma morti diversi (sì, i morti possono essere anche molto diversi fra loro, anche se la morte è la stessa comune insopportabile tragedia). Morti diversi per molte ragioni. Alcune. Perché il virus, al netto delle inefficienze sanitarie, ci è sembrato un fatto ineluttabile, come una maledizione. Mentre i morti dell’Ucraina, quelli ucraini, ma anche quelli russi, ci sembrano del tutto evitabili. Questi ultimi sono morti dai corpi spesso dilaniati nell’eco di enormi boati: sono quelli che i reporter di guerra ci mettono sul piatto nelle nostre case calde (chissà ancora per quanto, ma intanto calde). I morti del virus sono stati, sono, invece morti invisibili, corpi rotti dentro ma interi fuori, precipitati nel nulla nel bianco senza frastuoni degli ospedali, lontani dagli occhi di tutti se non da quelli dei medici e degli infermieri, lontani per sempre anche dagli occhi più cari.
E così, davanti a questi morti diversi, il vero discrimine, proviamo a ragionare di guerra. Su cosa voglia dire alla fine per noi italiani, per noi europei, tutto questo. Su cosa voglia dire oggi questa parola – guerra – quale sia il suo campo semantico, oltre i simboli che abbiamo stampati nella testa. Se dobbiamo rifuggirla, a ogni costo, con il pacifismo a oltranza che abbiamo imparato nelle manifestazioni studentesche e universitarie: il mio nome è mai più. Però sentiamo, che anche su di noi pacifisti indefessi, come vuole il Poeta, soffia il libeccio di una domanda: e se la guerra dovesse arrivare qui e se questi fossero i prolegomeni di una nuova Guerra mondiale e se gli ucraini fossero i polacchi di ottant’anni fa (e se), non sarebbe mostruoso pensare di non aver “fatto” abbastanza quando forse ancora si poteva farlo? Fermare Putin prima che i morti diventino centinaia di migliaia, da non riuscire più a contarli. Siamo forse quelli che, finché non tocca a loro, si vogliono girare dall’altra parte? Siamo quelli di Prima vennero?
La pace si è rotta. Negli equilibri del mondo, fra le nazioni, non funziona come fra moglie e marito. Che spesso litighi e poi fai la pace. Ed è bello fare la pace dopo aver litigato, magari in quel modo, come raccontava quel film. Quando si rompe la pace fra le nazioni è un cristallo fragilissimo e prezioso che cade a terra e si frantuma in mille pezzi. E non lo puoi rimettere insieme, devi forgiarne un altro e ci vuole tempo e fatica e la sapienza di un soffiatore di Murano. Forse bisognava essere meno maldestri e proteggerlo meglio, ma ormai dirlo conta poco, è quella roba del latte versato. Con le parole non si aggiustano i cocci, solo con le formule magiche, che non funzionano.
E così anche per noi, sulle soglie della primavera, è arrivato l’inverno russo. Non rischiamo di morire sotto alle bombe, non dobbiamo abbondonare la nostra casa, i nostri cari, la nostra vita, per fuggire chissà dove in cerca di salvezza. La guerra però è già entrata dentro di noi, con quella domanda, con quell’incertezza, con quell’inquietudine: se un giorno le sirene cominceranno a suonare anche nelle nostre città, in quel giorno, cosa penseremo dei noi stessi di oggi, forse troppo prudenti o molto poco partigiani? Ci perdoneremo, quel giorno, di non aver scelto con decisione una parte, senza se e senza ma, anche soltanto in commedia nella tragedia d’altri? Una parte che inevitabilmente farà morti, creerà disperazione, porterà madri a piangere sulle tombe dei figli, figli a non avere, mai più, padri. E poi il tarlo che ti fa pensare che se ti fai queste domande in fondo la guerra ti ha già preso, sei fottuto, non puoi non scegliere, anzi puoi (né con lo Stato, né con le BR), ma non è giusto. Con questo dubbio la guerra è entrata nelle nostre vite, o almeno così è entrata nella mia. Senza bombe sulla testa. È una guera con una ere, ma pur sempre guera è.