Useppe non deve morire

Credo che un sogno di Elsa Morante sarebbe stato quello di veder pubblicato dall’Editore il suo romanzo La storia in edizioni quasi quotidiane: giorno per giorno aggiornato l’ultimo dei capitoli in corpo minore, quelli che, prosaicamente, elencano i fatti della Storia, quella con la S maiuscola, ma finiscono per snocciolare quasi esclusivamente tragedie, stragi, orrore, tanto da far pensare che non esista una minuscola così piccola adatta a poter scrivere l’iniziale di quella parola. Certo questi giorni darebbero materiale a quei caratteri.

Ma perché pensare oggi a questo discusso romanzo? Perché rispolverare le vicende di Ida Ramundo vedova Mancuso e del suo figlioletto nella Roma fascista, occupata ed infine liberata? Perché non accettare le critiche di chi definì quel romanzo cinico, o al contrario sentimentalista, o di chi ancor più gelidamente, lo giudicò “criticabile dal punto di vista marxista-proletario” ? Perché, per noi, Useppe, come Yusuf, non deve morire.

Chiunque abbia affrontato quelle pagine non può non essere rimasto sconvolto dal finale del romanzo, in cui, preannunciata fin che si vuole, la morte del pischelletto ci colpisce come un pugno allo stomaco, come la mancanza di speranze, l’assenza di Dio, il vuoto di senso dell’esistenza. Forse proprio la tragica fine del piccolo protagonista attirò le numerose critiche che accolsero il romanzo: anche il lettore più smaliziato non poteva accettare che la Morante chiudesse la sua Storia senza lasciare una porta aperta al futuro. Da un punto di vista strutturale la morte di Useppe, e la follia di Ida, sono strumentali, classicamente, allo svolgersi della tragedia: la catarsi si deve consumare, Useppe, come Amleto o come Carlito Brigante deve morire; perché esso è lo strumento ideologico del narratore che vuole ammonirci sulle conseguenze inarrestabili della pallina lasciata scivolare sul piano inclinato, ci diciamo. Ma lo stesso questo approccio non ci convince. Amleto è tremendamente egoista, il suo destino tragico è segnato, ma egli compie delle scelte, si arrovella razionalmente, combatte, recita; per non parlare di Carlito, colpevole dichiarato, narcotrafficante senza scrupoli, uomo d’azione, di coltello, voce forte, presenza per il suo mondo e per se stesso. Di Useppe tutto questo non si può dire, ne siamo certi: egli è una figura oltreumana, innocente all’inverosimile, le sue scelte non sono scelte ma necessità; egli si muove fra le cose con uno stupore estatico, gli occhi azzurri costantemente spalancati, un amore per la vita, date le sue condizioni, tanto incomprensibile quanto puro, non meditato, aperto, senza difese, e forse proprio per questo pericolosamente spalancato, fin dal principio, sull’abisso. Tutti gli altri personaggi del romanzo si muovono verso degli obiettivi, degli scopi, il cui il principale è uno solo: sopravvivere. Useppe è diverso. Egli è fuori dal regno dei fini. Non è uno spettatore della Storia, né una coscienza: Useppe è semplicemente la vita. Mentre tutto quello che gli succede attorno, Ida compresa, è la Storia.

La Morante porta la Storia alle sue estreme conseguenze: la storia uccide la vita, ci diciamo. Non la vita di un singolo, che è già una tragedia,né quella di milioni di singoli, ma la vita in sé. Cos’è il Grande Male di Useppe se non vivere all’interno della Storia? Non il vivere come condanna, kafkianamente inteso, ma proprio ciò che gli uomini hanno fatto delle loro esistenze, il sistema esistenziale che hanno costruito. Ci prova Davide Segre, prima studente anarchico, poi eroe partigiano, infine proto tossico, nel suo lucidissimo e sconnesso monologo all’osteria, a spiegare a quella platea proletaria postbellica quest’immensa tragedia. Ma non ottiene risposte. Non ottiene attenzione. Com’è possibile? I giocatori di carte non perdono la concentrazione sul loro misero passatempo, c’è chi discute di calcio, chi ciondola al ritmo di un motivetto diffuso dalla radio, chi si instupidisce con il vino. Nemmeno la rivelazione che Davide è ebreo, ed ha avuto la famiglia sterminata li scuote. Nemmeno l’accusa perentoria “siamo tutti colpevoli, siamo tutti esse esse”. Per loro la guerra è finita, l’osteria è il buen retiro settimanale, dopo le fatiche quotidiane del lavoro: questa è la vita per loro. E a loro sembra proprio parlare l’Eduardo di Napoli milionaria che tuona “Non è finito niente!”, o il saggio greco senza scrupoli de La tregua: “Guerra è sempre”.

“Useppe non deve morire!”, ci diciamo, lette le ultime pagine. Ma noi tutti siamo quella popolazione da osteria. Concentrati sulla carta da giocare, estasiati da un bicchiere di vino, da un dribbling, da un motivetto, noi, tutti, perpetriamo la Storia. Ecco il senso di leggere quest’oggi La storia. Dalle nostre labbra escono le parole del Leviatano che solo mira a eternare se stesso cibandosi di vite: di vita. Chiudiamo gli occhi davanti al destino degli Useppe, alle loro magiche tende d’alberi, alle loro poesie senza carta. Assistiamo ai bombardamenti di Gaza che lo schermo ci butta nel piatto disgustati, ma il nostro è un disgusto maturo da termosifoni accesi. Come Ida nel ghetto deserto ci sorprendono delle allucinazioni (“Sono tutti morti”), e ragioniamo troppo, politicizziamo troppo, non riusciamo a capire quanto della nostra vita abbiamo in comune con Mengele ,con la sua ideologia ed il suo calcolo, figlio della storia, e quanto poco con gli Useppe-Yusuf, con il loro stupore, figli della vita. Sistemiamo le nostre carte in ordine crescente, esultiamo delle coppie, per non parlare dei tris, e intanto un frastuono disumano cancella chi sorriderebbe felice al solo mostragli delle carte i semi. Che davvero Useppe non debba morire ce lo impone la nostra legge morale. Ma Useppe invece, davanti ai nostri occhi, ogni giorno, continua a morire. Delle tende d’alberi, anche laggiù, dove, come vuole il poeta, “all’ulivo s’intreccia la vite”, non avremo memoria: fotograferà la nostra mente della strage soltanto scheletri di muri, che qualcuno, adulto e maturo, ancora e per sempre nella Storia, ricostruirà.

Una cosa scritta nel 2009, non ricordo neanche più per chi. 

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