Quest’anno avevo deciso di non scrivere il mio tradizionale racconto del Premio Subito (che in passato avete conosciuto come Spotorno Subito) e che si è svolto due settimane fa nella cornice montana di Gressoney. Il motivo per cui avevo scelto il silenzio è molto semplice: sono geloso. Sì, geloso: di quel garbuglio gordiano di pubblico e privato, delle chiacchiere che completano gli interventi sul palco, magari a tavola, magari davanti a un bicchiere o passeggiando, degli amici vecchi e di quelli nuovi. Geloso persino di quella domanda “e tu cosa fai?” a cui rispondo ogni anno con perifrasi sempre più ricercate. Volevo tenerlo per me il Premio, farvi vedere due foto e punto. Pensavo: “volete sapere com’è? Veniteci”.
Tornavo dal Premio, ogni anno, con qualche risposta e molte domande. Sul senso, il valore e le possibilità del comunicare, del raccontare le storie e il mondo. Sui modi, quelli vecchi e quelli nuovi. Cosa tenere, cosa buttare. Ma erano le domande, direbbe un caro amico, di “uno che non ha mai messo piede in una redazione”. Per industriarsi “di rispondere ai perché”, come dice Levi, “per fare un’opera di chimico che pesa e divide, misura e giudica” non bisogna conoscere solo la chimica teorica, ma sporcarsi con sali e becher. Quest’anno però la domanda importante, che ha cancellato tutte le altre mie sciocche, e mi ha convinto a scrivere queste righe, è arrivata da qualcun altro. È la domanda di Stefania.
LA DOMANDA
Stefania non è un nome fittizio, come si fa in certa letteratura. È Stefania Carini, talentuosa giornalista e autrice (qui trovate un po’ di cose sue) che nell’ultima giornata, domenica, a pranzo davanti a una pizza, a Premio sostanzialmente concluso, alla presenza del sottoscritto e di altri commensali di cui celerò l’identità per i motivi detti in partenza (chi c’era si riconoscerà), ha posto il seguente interrogativo:
- Perché un giovane bravo dovrebbe voler fare oggi il giornalista?
Avevamo da poco ascoltato Enrico Mentana che dal palco del Premio aveva raccontato del suo progetto editoriale: un giornale online dedicato ai giovani, fatto da giovani per i coetanei che non si informano più attraverso le testate cartacee, i giornali fatti più o meno come sono sempre stati fatti. La domanda di Stefania, lungi dall’essere una critica all’idea del direttore del TGla7, mi era sembrata subito, appena ascoltata, un grimaldello per scardinare molte delle porte che separano i giornali dal mondo fuori, i giornalisti dai loro simili. Ci sono naturalmente a questa domanda diversi sottotesti, tutti miei, che potremmo sciogliere così:
- Perché un giovane di talento dovrebbe scegliere, fra le molteplici possibilità comunicative autonome, di chiudersi in una redazione con direttore/editore, di fare un lavoro oggi pagato peggio di altri, che dà al giovine minori possibilità di carriera di altri e che, soprattutto, per usare un eufemismo, non ha lo stesso riconoscimento sociale di un tempo (tradotto: ki ti paca)?
Cercherò di dare una mia, probabilmente molto parziale risposta a questa domanda. Però non ora. Ora lasciamo Stefania e Alessandro e gli altri commensali lì, in un fermoimmagine, immobili con la forchetta a mezz’aria (che tanto è un racconto e la pizza non si fredda).
I GIOVANI BRAVI
Ma chi sono questi giovani bravi? Intanto sono giovani. E vorrei qui perentoriamente affermare che è ora di smetterla di considerare giovane chi c’era quando correva Senna, quando giocava Baggio, quando internet aveva i fili e c’era quell’apparecchio che alla connessione faceva quel caratteristico rumore e se navigavi non potevi telefonare (“facciamo internet” diceva la mamma di un mio amico srotolando la prolunga telefonica). Giovani nel senso che hanno una visione del mondo e delle sue connessioni più simile a chi ha oggi dodici anni che a chi ne ha quaranta come me, che ho la mente più domiciliata a Guernica che a Cupertino: sorrido pensando che questa definizione l’avevo scritta qualche anno fa parlando del Presidente Napolitano.
Poi devono essere bravi. Secondo me sono bravi quelli che hanno gli strumenti e li sanno applicare. Che mettono l’idea dentro l’azione e viceversa. Che astraggono e si sporcano (ancora). Che vogliono partecipare, ma che vogliono fare con il modo loro che non è quello di chi c’era prima. Che non hanno paura.
Anita e Lollo non hanno paura. A Gressoney hanno parlato del loro progetto, avviato un anno fa, di sostegno ai bambini siriani. Bambini come loro, che oggi hanno dodici anni, ma che vivono da anni sotto una pioggia fitta di bombe, l’orizzonte sgretolato, le famiglie decimate: sgretolato il futuro. Anita e Lollo aiutano con le mani: il motore è stato un’idea, ma poi ogni giorno costruiscono con le loro piccole dita oggetti, prodotti materiali che si toccato e si guardano. Lavorano perline, le plasmano e ne fanno quadretti dai soggetti fantasiosi. Vendono i quadretti, a chi ci sta, e il ricavato va a un’associazione che si occupa di bambini siriani. Anita e Lollo sono giovani bravi, che non hanno paura del futuro, che fanno con le mani, che plasmano la materia con la forza di un’idea.
Dice Daniele Bellasio, che del Premio è il curatore, l’anima, il papà, che lo spirito che ha animato il Premio stesso fin dalla sua prima edizione è ciò che L’Arcivescovo di Torino ha sintetizzato come testamento di Sergio Marchionne alla messa in ricordo del manager di due settimane fa: “ci ha insegnato a non avere paura del futuro”. L’aggettivo più utilizzato in queste ultime settimane per definire l’ex ad di FCA è stato “controverso”, Sergio buono, Marchionne cattivo, ma nessuno può negare, neanche il sottoscritto declinante più verso l’aggettivazione legata al cognome, che guardasse avanti e non indietro.
I GIORNALI
Al Premio si parla di giornali, è ovvio. Dice, un adagio, che il problema dei giornalisti è che parlano sempre di quotidiani e mai di quotidiano. Non avere paura del futuro: falla facile. Ma qual è il futuro dei giornali oggi? Non oggi in senso lato, proprio oggi, questa mattina, nel mondo nuovo dei sovranismi, di Trump e Putin, in questo mondo nuovo dove la coperta del novecento sembra essersi sfaldata all’improvviso, come quegli effetti sulle mummie dei film di Indiana Jones. Importa a qualcuno se chiudono i giornali? E poi le colpe. Di chi è la colpa? Dei giornali stessi che hanno alimentato la bestia con il giustizialismo, con la lotta alle caste e adesso si scoprono vittime di quell’onda? Dei singoli, della mancanza d’accuratezza? O forse in questo nuovo mondo non c’è più spazio per i giornali come li abbiamo intesi fino a oggi?
Le domande, le solite. Ma se Daniele Bellasio ci ripete da anni che il Premio non deve essere un piagnisteo che guarda ai problemi, ma una serie di proposte che guardano alle soluzioni, è il momento di provare a mettere giù qualche possibile soluzione e magari cercare di rispondere a Stefania.
Dice Enrico Mentana: non abbiamo capito nulla. Non abbiamo sentito arrivare l’onda. Non abbiamo capito che arrivava la Brexit, non abbiamo capito che arrivava Trump, non abbiamo capito la Lega e i 5 Stelle. Non l’abbiamo capito perché abbiamo la mente domiciliata a Guernica, perché non mettiamo il naso nella polenta concia (le metafore sono mie).
LA POLENTA CONCIA
Al Premio c’è Michele Dalai che in diretta e dal vivo fa ancora una volta “Ettore”. Che forse non ci sarà più, ma noi invece speriamo che viva ancora perché “Ettore” è una delle risposte. Michele non racconta una storia, crea un mondo attorno a una storia. Ci ha regalato a Gressoney quella di Gino Bartali al Tour del ’48, che a sommi capi conosciamo tutti, con l’attentato a Togliatti e la telefonata di De Gasperi e Ginaccio che trionfa con i francesi che si incazzano e i giornali che svolazzano. Ma Michele, a Gressoney, ci ha raccontato un’altra storia, un’altra epica, un altro eroe. Gino Bartali, l’uomo senza grandi doti, la faccia da pugile stanco, il bene che si fa ma non si dice, l’amore della gente. Uno di noi. Sì, perché più di tutto, al di là della guerra fredda, dei Camillo e dei Peppone, quell’impresa di Bartali fu un grido generazionale, una rivalsa: esistiamo ancora, nonostante la fame e la guerra. Esistiamo e vinciamo il Tour de France. Bartali, l’uomo comune, dalla comune storia di umili origini, dalla carriera spezzata dalla guerra, come per molti la giovinezza, diviene il simbolo di un’Italia che si sentiva fuori dal conflitto, ma dentro un conflitto più grande con la realtà: non avere vera voce.
C’è anche Paolo Nori, al Premio. Nori è uno studioso di letteratura russa, ma ha anche un modo straordinario di scrivere e raccontare le cose nostre. Quelle piccole che ci stanno attorno, ma che così piccole non sono perché costruiscono il mondo di cui ci cibiamo e che fa di noi quello che siamo. Così ci dice che lui mica l’aveva capito cos’era l’Emilia per lui: “oltre che al ballo liscio, al lambrusco e ai tortellini, pensavo a poche cose, ai pioppi e al fiume Po, prevalentemente”. Poi ha visto le foto di Ghirri:
“Dopo che ho visto le fotografie di Ghirri, io mi sono accorto che in Emilia ci sono anche i distributori di benzina, i semafori, le fermate dell’autobus, la neve, i bambini che si vestono da Batman per carnevale, i gommisti, le saracinesche, le pubblicità, il cielo. Lui, Ghirri, con le sue fotografie, è come se avesse preso con due dita l’imballaggio che avvolgeva l’Emilia, sotto casa mia, e avesse tolto dal loro imballaggio che li rendeva invisibili i distributori di benzina, i semafori, le fermate dell’autobus, la neve, i bambini che si vestono da Batman per carnevale, i gommisti, le saracinesche, le pubblicità e il cielo che c’erano sotto casa mia e io adesso, è incredibile, riesco a vederli, e la cosa è ancora più incredibile se si considera che Ghirri, sotto casa mia, probabilmente, non c’è mai neanche passato.”
E poi Paolo Nori parla di sua nonna, che con l’italiano non aveva un rapporto sereno. Che la mamma non l’ha mai chiamata mamma, perché la sua lingua vera, quella della testa e del corpo era il dialetto (e io penso a mio padre che è molto più giovane della nonna di Nori, ma che una volta mi ha detto che quando è da solo e pensa, pensa in dialetto. O a mia moglie, che è veneta, che quando mi sgrida, come fanno le mogli, lo fa quasi esclusivamente in trevigiano). Ah, e poi c’è la storia degli antropologi bolognesi
“che qualche decennio fa avevano invitato un cantastorie senegalese, uno che scriveva delle storie e poi le metteva in musica e le cantava ai suoi concittadini, l’avevano invitato a Bologna e gli avevano detto di osservare i bolognesi e di scrivere poi una canzone su di loro da cantare ai senegalesi e lui, tra le altre cose, aveva scritto che in Europa, al mattino, succedeva una cosa stranissima, c’era un sacco di gente che andava in giro legata ad un cane.”
Insomma. Ci stiamo avvicinando a una risposta. E allora torniamo a Mentana, che sul palco del Premio Subito, sesta edizione, a Gressoney, intervistato da Daniele Bellasio, ci dice che non abbiamo capito nulla, l’onda che arrivava, etc. Poi aggiunge: ci sono quelli che tornano a casa e vedono due neri ubriachi sotto casa e hanno paura. La loro paura è irrazionale? Forse. È un pregiudizio? Probabilmente. Ma noi siamo VERAMENTE andati a raccontarlo quel mondo? Abbiamo raccontato quelle persone? L’abbiamo fatto con le tecnologie nuove e con il buon vecchio modo del giornalismo fatto bene, che raccoglie dati, ma cerca anche di capire il mondo attraverso le parole delle persone?
Che cos’è la polenta concia? È polenta, intanto. Un piatto povero, un piatto tradizionale che racconta chi siamo, da dove veniamo. Ma non solo. È arricchita, avvantaggiata, formaggio e burro: pesante, sostanziosa. Troppo sushi, dico io.
Quindi pigiamo sul tasto play e rimettiamo in moto Stefania, Alessandro e gli altri commensali. E proviamo a risponderle, a Stefania. Se c’è un motivo per cui oggi un giovane dovrebbe voler fare il giornalista è perché là fuori c’è un mondo nuovo da raccontare. C’è da sporcarsi, senza paura del futuro, senza pregiudizi, mettendo il naso nella polenta concia: che è una roba antica e pesante, ma è anche ricca e racconta quello che siamo. Cerchiamo i Bartali, anche se corrono veloce e parlano un dialetto che noi non parliamo più. Quelli che potrebbero vincere e non vincono. Dentro alla polenta, ma con lo sguardo di chi è collegato con il mondo e può trovare in sé la visione pura del cantastorie senegalese.
Probabilmente questa non è l’idea geniale di cui parla Luca Sofri. Però magari è possibile che quell’idea venga a uno di quei giovani bravi che raccontando per un giornale quest’epoca nuova ne comprenda meglio di noi, gente di Guernica, i meccanismi. È una grande sfida: ma a chi dovrebbero piacere le grandi sfide se non ai giovani bravi?
- Foto di Nanni Fontana.