Noi e Ana.

Questa pagina del nostro diario, inizia e finisce con Anne o, come dicon tutti, Ana.
Se passate da Portland, nel Maine, fate un salto a trovare Ana. Lavora come cameriera in un bar con cucina di fronte al porto dove puoi mangiare il fantastico lobster roll, la specialità locale d’astice che più fresco non si può, visto che la cooperativa di pescatori te lo porta dalla barca quasi direttamente nel piatto. Ana non è più giovane e ha una camicetta forse troppo scollata. Il bar è arredato in stile Las Vegas e stride moltissimo con quello che puoi vedere dalla finestra; quello che non stride, invece, è il sorriso di Ana, che si muove nel locale come nel suo elemento, scherza con i clienti abituali e lancia i dadi come non avesse fatto altro nella vita: già perché nel bar di Ana puoi giocarti la bevuta; se realizzi un punteggio (che non siamo riusciti a capire) il drink te lo offre la casa.
Portland è nel Maine e sembra proprio Glouchester, il paese dei pescatori de La tempesta perfetta, solo un po’ più turistica e meno crepuscolare. Prima di arrivare lì, però, abbiamo fatto tappa a Boston, città che non è America e non è Europa, dicono le guide che tutto sanno. Noi, come avrete capito, le città le prendiamo un po’ di sbieco, al traverso, ci lasciamo trascinare di poppa senza cercare ostinate boline controvento perché così impongono le mappe.
La nostra Boston personale è fatta di coppie che si baciano al parco e scoiattoli ovunque; centinaia, migliaia di simpatici scoiattoli, che spuntano da ogni aiuola, da ogni albero, a pochi metri dal traffico e dai grattacieli. La nostra Boston sono gli homeless e i diseredati che qui si vedono ancora, qui dove la lunga mano di Rudolf Giuliani non è arrivata a portarli chissà dove, come le anatre del Central Park. La nostra Boston è la capillare comunità italiana nei cui ristoranti noi non mangiamo per principio; ma ti fa stringere il cuore trovare a 6000 chilometri da casa tanto orgoglio d’appartenenza: la chiesa fondata dai primi immigrati, quasi due secoli fa, dove ancora ci sono oggi i corsi d’italiano per i giovani, perché la lingua sia come un ombelico da non recidere mai con la terra dei padri.
Se decidete di andare a trovare Ana, e prima fate un salto a Boston, tenetevi lontani dalla metropolitana se non avete una laurea in teoria dell’inurbazione applicata ai trasporti. Procurarsi un ticket per una corsa singola è una quadratura del cerchio di cui oggi conosciamo la soluzione, ma che non riveleremo ad altri se non previo lauto compenso.
Un’altra cosa che piace fare a me e Betty in vacanza è perdersi. Ma non perdercsi nelle città per scoprire i luoghi caratteristici, gli scorci non battuti dai turisti organizzati, i locali dei local: no, troppo facile, quello sono capaci tutti. A noi piace perderci veramente. Perderci per periferie, che a un certo punto vedi soltanto superstrade dove le macchine sfrecciano e sembrano solo macchie di colore, oppure costeggi quartieri di case sonnecchianti mentre chi le abita è al lavoro o a scuola o al centro commerciale o a judo.
Così per arrivare a Havard, la mia sognata Harvard, abbiamo attraversato una sterminata teoria di market e fastfood di periferia e di casette su viali un po’ trasandati e giardini mal tenuti chissà quante volte guardati dall’interno con melanconia. (Poi a Harvard ci siamo arrivati e io ne sono tornato felice come un bambino con lo zucchero filato con la mia felpa amaranto HARVARD che una studentessa svogliata allo store del campus ha stivato con malagrazia nel sacchetto sotto il mio sguardo di disapprovazione). Così abbiamo percorso, credo unici al mondo, l’intera promenade di Portland, che oltre a spettacolari treni ottocenteschi addormentati su binari morti, ci ha condotto attraverso un enorme impianto di depurazione che accarezza la baia e un’infinita conurbazione alle spalle della cittadina, un Bronx al profumo di salsedine e smog.
La nostra serata a Portland, infine, l’abbiamo separata casualmente in modo schizofrenico fra una taverna ornata da centinaia di boccali appesi al soffitto e numerati per gli abituals, dove una fantastica coppia americana seduta al tavolo a fianco al nostro andava in disibilio per il quiz del locale che prometteva bevute gratis e un raffinato bistrot che proponeva delicatissimi paté e dispensava noccioline alla salsa wasabi (e le titolari erano ostentatamente radical qualcosa).
E poi, ah, Ana.
Abbiamo sceso le scale del piano inferiore del nostro albergo verso il bar, per il bicchiere della staffa. Il barista ci ha fatto notare che stava chiudendo, che, insomma, in pratica aveva già chiuso e che erano rimasti a bere una birra solo i dipendenti dopo il turno; ma visto che venivamo dall’Italia un giro potevamo ancora farlo. Dall’altra parte del balcone, Ana. Biondo tinta, senza averne l’aria. Ci riconosce dal pranzo e ci mettiamo a chiacchierare del più e del meno, del matrimonio, dell’America, dell’Italia e dei prezzi dei ristoranti di pesce in Liguria. La conversazione procede a sobbalzi, come interrotta dagli scambi di un treno perché lo slang di Ana è abbastanza ostico e i drink suoi, e i nostri, non aiutano. Ana non è sola, è con Micheal. Un ragazzo che persino io che sono uomo potrei giudicare decisamente non brutto affatto. La nostra birra sta finendo e non è granché, così salutiamo Ana e le diciamo che si va a nanna, per noi la serata finisce lì. Mentre ci stiamo congedando Ana ci dice che lei e Micheal sono migliori amici da sedici anni, ma che invece adesso…Mentre lo dice i suoi occhi si inumidiscono e ci sembra improvvisamente bellissima (è incredibile come io e Betty abbiamo pensato la stessa identica cosa), ma allo stesso tempo infinitamente triste. Alle sue spalle Micheal al bancone sta flirtando con la cameriera che con uno straccio da l’ultima passata alla spina della birra. Poi Ana si ricompone e dice che la sua notte è appena iniziata, se vogliamo seguirla. Decliniamo l’invito e sull’ascensore ci abbracciamo forte forte, senza parlare, ma lo so che entrambi stiamo pensando di essere molto fortunati.

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