Non basta comunicare bene, conta anche chi lo fa

Ogni politico o movimento ambisce alla disintermediazione. È più comodo e, soprattutto, la disintermediazione funziona. Funzionò quella catodica di Berlusconi. Ha funzionato quella digitale, ma monodirezionale, del blog di Grillo. Funziona quella in 140 caratteri di Renzi, il #matteorisponde, il tweet diretto, sferzante, che arriva al singolo senza mediazioni. La tv, il blog, Twitter, e poi arriverà Periscope, un concentrato dei tre canali, la blog tv in diretta, bruciante e corrosiva come un tweet.

Ora, la disintermediazione funziona se devi distruggere, abbattere, smontare, demolire. La chiave del messaggio che arriva senza passaparola, senza deformazioni o interpretazioni, è la sua semplicità. Deve essere incontrovertibile, immediato. Così l’imprenditore estraneo al mondo dei politici di professione, così il nemico delle caste, così il rottomatore. La disintermediazione non può essere riflessiva, non può approfondire. È per sua natura l’arte della pars destruens.

Quando governi, soprattutto se fai, partorisci riforme, moltiplichi decreti, disintermediare non basta più. O meglio, non è più possibile. La pars construens per essere raccontata ha bisogno di approfondimento dei temi, di paragoni, di exempla e di un clima di fiducia non generico, ma sulla specifica materia, non rivolto a un singolo, a un leader, ma a ogni esponente del partito che ha intrapreso quella scelta normativa piuttosto che un’altra.

Per raccontare il governare, spiegare i particolari di un progetto, soprattutto in un paese a torto o a ragione pervaso di negativismo, serve una struttura, capillare, funzionante. Il Partito democratico ha la fortuna di averla, indiscutibilmente la più grande infrastruttura democratica del paese; ma è un gigante stanco, canuto nonostante un segretario quarantenne. Una svolta pare necessaria. Non semplicemente un make up, non una riproduzione di strutture che hanno funzionato in realtà completamente diverse (come OFA).

Il filosofema tanto deprecato dai puristi della tradizione, “la politica è comunicazione”, va ribaltato: la comunicazione è politica. E la scelta politica e comunicativa necessaria, a fronte di una lucida analisi delle recenti arretramenti di consenso, sembra non essere altrimenti che quella che potremmo chiamare: despoliazione. Liberando il termine spoliazione dalle sue valenze meramente economiche e aprendolo a quelle politiche e culturali.

Aprire le porte della classe dirigente a chi può essere veramente riconosciuto vicino al cittadino comune; ce lo dimostra l’esperienza quotidiana: non è solo importante saper fare, né solo fare, né soltanto comunicare di aver fatto, ma forse e soprattutto chi è a comunicarcelo. Se chi ce la racconta è considerato, a torto o a ragione non importa, altro, estraneo, o se è percepito parlarci da una posizione elitaria, privilegiata, anche la storia della riforma più rivoluzionaria di sempre, comunicata con i mezzi migliori e con le tecniche più raffinate, ribalzerà sull’interlocutore come contro un muro di gomma.

Pubblicato su unita.tv 14 Luglio 2015

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