Il nostro destino, qui sulla strada verso Philadelphia e ancora per qualche ora, è ed è stato nelle mani di Monthy, l’autista afroamericano che ha le efelidi come quelle di Morgan Freeman e per questo mi fido di lui, come Robin Hood del saraceno Azeem. Le mani di Monthy sono giganti come quelle di Gianni Morandi, sembra quasi che il volante non lo stringano, ma lo incorporino, come un cavo in una guaina. Con le sue mani esperte, che hanno viaggiato più dei Pooh, Monthy ci ha portato al mercatino del villaggio Amish, dove le sapienti mani delle donne dagli abiti passati sotto un filtro seppia di Instagram e in testa quella che il mio bisnonno chiamava “la scuffia” (metighela na scuffia a sto figeux), avevano preparato torte e dolci di varie gradazioni di dolcezza e oggetti di vimini, cose intrecciate come quelle che si fanno, o si facevano, nei centri di recupero per tossicodipendenti. Mentre eravamo lì, e diluviava, sulla stessa statale in cui rombavano i già detti tir mastodontici, le mani di una giovane Amish sotto il diluvio stringevano un manubrio e ad ogni pedalata il suo vestito era più zuppo, e mentre scompariva dal mio campo visivo ho pensato che sono troppo progressista per queste cose.
A Washington siamo scesi all’Hilton dove la mano di John Warnock Hinckley Jr. strinse la calibro 22 che attentò alla vita di Ronald Regan, una mano che sognava di carezzare il volto di Jodie Foster. La capitale è un monumento avvolgente e se ti metti nel centro, l’obelisco, e giri su te stesso di 360 gradi spalle all’obelisco stesso, ti sembra di poter prendere con le mani la Casa Bianca e il Pantheon e il Lincoln Memorial e il Campidoglio. È una città così precisa, così funzionale al ruolo, che in poco tempo riesci a conoscerla come il palmo della tua mano.
Costruire una città praticamente da zero, con una destinazione precisa: farne una Capitale. E attorno a questa idea tante mani che lavorano, mani che disegnano strade e palazzi, mani che scolpiscono il marmo, mani che scrivono permessi, ma anche parole eterne che decidono destini. Costruire una città quasi dal nulla per farne una Capitale: forse un’idea non così folle, un’idea progressista, un’idea che regala al futuro le mani del presente e non solo quelle del passato.
Abramo Lincoln siede impietrito nel marmo, e le sue mani non sono insanguinate. Una è aperta e l’altra chiusa, per rappresentare l’alternanza di dialogo e fermezza, dice Greg la guida, mentre con la mano regge l’ombrello rosso che gli serve per guidare il gregge. Alternare fermezza e dialogo, e io penso alle cose di casa nostra mentre con una mano reggo l’iPad e con l’altra cerco prospettive originali per foto che rappresentino egoticamente non lo solo il rappresentato ma anche il me stesso di quel momento davanti alla pietra.
Il Vietnam è una ferita ancora aperta come lo è nella terra il monumento con le grandi lastre di marmo nero, i nomi dei caduti incisi uno dietro l’altro, senza soluzione di continuità, quasi come un codice o un discorso sincopato. Qualcuno vede questo monumento troppo astratto, troppo poco carne: allora c’è una statua che raffigura in corpo tre soldati, stretti stretti, che vogliono essere una generazione spezzata. Se lo guardi da dietro, il gruppo, vedi la mano di un soldato poggiata sulla spalla del compagno. Più avanti, fra le lastre scure, un bambino biondo con la mano aperta tiene fisso sul marmo un foglio mentre con l’altra muove una matita come un tergicristallo per imprimere sulla carta l’orma di un pezzo del muro, di nomi sconosciuti, di vite cadute, di mani perdute in una terra lontana chiamata Vietnam.
La mano di Betty che stringe la mia, quelle che stringono smartphone, tablet, fotocamere, alzate al cielo come una coppa per immortalarsi sullo sfondo della Casa Bianca. E poi le mani degli anziani, tanti, che lavorano. Mani che spazzano, che servono ai tavoli, che mimano indicazioni ai turisti non anglofoni nel panico. Mani rugose in un universo opulento e feroce che si vuole giovane per sua natura. Mani che non ce l’hanno fatta in un mondo che sembra ripeterglielo ogni volta che altre mani contano mazzette di dollari, scattano foto che porteranno nelle loro case dall’altra parte del mondo, scivolano dentro alle tasche di abiti firmati per cercare mance.
Infine ancora le mie mani su questo iPad, ancora su questo pullman, mentre Betty socchiude gli occhi e Monty sta al suo posto quasi come un re sul suo trono mobile, per raccontarvi e condividere (che è un verbo bellissimo) negli spazi vuoti, tra una meta e l’altra, immaginando le vostre mani prendere vita sul riflesso dello schermo come ombre cinesi.