Astensionismo: la parola sbagliata sulla bocca di (quasi) tutti

C’è una parola sulla bocca di (quasi) tutti in queste ore: astensionismo. Ma tutti quelli che la frequentano sono pienamente consci del suo reale significato? Recita il vocabolario enciclopedico Treccani: “astenersi di proposito, per ostentazione di indifferenza o di protesta”.

Insomma, chi usa questa parola, attribuisce al potenziale elettore, che in questa tornata di consultazioni regionali non si è recato alle urne, una precisa, ostentata volontà antisistemica, una scelta di volontaria indifferenza quasi ideologica.

Siamo convinti che si tratti del giusto approccio alla questione? O sarebbe meglio, se proprio ci si vuole cimentare in un’analisi non superficiale, parlare di “astensione” e cercare di analizzare il fenomeno astraendosi per qualche istanze dalla contingenza e dagli interessi di parte.

In tutta la Prima Repubblica il voto in Italia si è estrinsecato nella contrapposizione fra due grandi partiti: la Dd e il Pci. La narrazione era semplice, lineare. O di qua, o di là. L’appartenenza sociale e valoriale, sulla scorta della narrazione più ampia rappresentata dalle due superpotenze mondiali, con il loro universo ideologico in conflitto, garantiva un’identità monolitica, incontrovertibile. Era la società di massa, quella in cui prima di essere individui si era comunisti o operai o cattolici o travet. Una mondo che declinava nella modernità gli stilemi della millenaria suddivisione per categorie umane della società contadina, sopravvissuta come forma mentis alle rivoluzioni industriali.

Ma oggi quella società non esiste più. Bene lo ha capito, forse e prima di tutti, l’attuale Pontefice. Egli non si rivolge alle categorie, attraverso l’utilizzo di mediazioni consolidate. Egli parla direttamente all’individuo singolo: al divorziato, al disoccupato. Scrive al giornalista. Telefona al malato. La società si è parcellizzata, ogni individuo è un universo. I legami, i gruppi, hanno catene più sottili, fragilissime. La rivoluzione digitale non ha solo aperto il mondo, rimpicciolendolo, ma l’ha anche popolato di uomini e donne che costruiscono la propria identità come un puzzle, prendendo pezzi da quadri diversi: un’identità arlecchinesca.

Tutto questo si ripercuoto sulla scelta politica. Fuori da qui, dalla provincia grande della politica italiana il fenomeno è evidente da decenni. Cosa è successo in Italia che ci porta solo oggi ad arrivare a queste evidenze, anzi, per molti a non saperle riconoscere? Un nome, una persona: Silvio Berlusconi. Per un ventennio attorno alla sua figura è sopravvissuto il voto di massa. La contrapposizione di appartenenza, il “o di qua, o di là”.

Oggi Silvio Berlusconi, e i dati delle regionali ne sono un’evidenza, politicamente non esiste più. Oggi il voto in Italia diventa ciò che per molti paesi è da tempo. Un voto fuori dalla società di massa. Un voto in cui alla partecipazione è necessaria una contrapposizione che si esprima sotto forme diverse, sempre nuove ad ogni tornata. Sempre coinvolgenti per ogni singola individualità. E poi, in ultima istanza, la trama ha bisogno di un finale a cui tendere, al desiderio di arrivare all’ultima pagina, dentro la storia.

Dov’era la tensione in queste elezioni? I candidati del Partito democratico venivano dati per vincenti, da mesi, e con ampio margine. I media, forse proprio per questo, hanno trascurato gli approfondimenti: di fatto non hanno contribuito al racconto, anzi, l’hanno oscurato per settimane puntando il faro sulla contrapposizione Renzi-sindacato. C’era forse un serio antagonista al solo protagonista di questa vicenda in grado di far procedere la storia? Di fatto, a nostro avviso, l’astensione a queste ultime regionali dimostra che nemmeno Matteo Salvini può rappresentare questo ruolo, giacché i cittadini non hanno operato una scelta simile a quella che permise a Beppe Grillo di arrivare alle elezioni europee nel ruolo, appunto, di antagonista, con un #vinciamonoi, apparentemente credibile, da lanciare. Si dirà che tutto è trasferito, in questo ragionamento, sul piano nazionale, trascurando le particolarità locali. Ma è il magma in cui ci muoviamo. E le elezioni regionali sono più legate alle vicende nazionali di quanto succedesse nel passato (altra questione, invece, riguarda i sindaci, molto più legati al vivere vissuto del cittadino-elettore).

Insomma oggi l’elettorato non è più la proprietà più o meno variabile di una forza politica, di uno schieramento. Va conquistato conversando direttamente con lui e proponendogli un racconto a cui partecipare, in cui sapere come va a finire, insomma, se alla fine arrivano gli indiani. Una partecipazione anche emozionale, da cui i mezzi di informazione non sono esclusi, che si deve ripetere, ogni volta. Ma perché questo meccanismo funzioni ci deve essere una alternativa, la possibilità di una scelta. E ad oggi, quella possibilità, per mancanza della sostanza che alimenta l’epos, non c’è.

(Pubblicato su Huffington Post Italia 25 Novembre 2014)

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