Le parole in politica tendono ad invecchiare rapidamente. Acquistano odore di stantio, spesso usurate dall’utilizzo prolungato, finiscono per svuotarsi di senso o ampliare il proprio campo semantico in maniera così onnicomprensiva da risultare un flatus vocis, una zeppa da incollare al discorso quando non si sa cosa dire, non si conosce abbastanza un argomento o si vuole dar dignità ad un’opinione di parte.
È questo il destino toccato alla parola “comunicazione”, il passepartout buono per aprire ogni porta negli ultimi dodici mesi, soprattutto quando l’oggetto dell’analisi si trovava ad essere il presidente del Consiglio Matteo Renzi. Di più, per molti commentatori lo stesso approccio politico di Renzi non poteva essere analizzato se non come un processo meramente comunicativo, con i pregi e i difetti che ne conseguono. I pregi: una grande capacità di creare consenso, un’abilità oltreumana di vendere il proprio prodotto. I difetti: un sostanziale vuoto di contenuti, un vuoto politico, in sostanza, un pacco ben infiocchettato, ma vuoto.
Ad alimentare questo mito ha certo concorso l’esuberanza mediatica del Premier, un uso speed dei social media in un paese abituato al comunicato stampa, l’hashtag lanciato in diretta, la disintermediazione ostentata come un diritto della modernità, l’intrusione in spazi fino ad oggi inavvicinabili per un leader di sinistra come l’intrattenimento Mediaset.
Insomma, per i detrattori di Matteo Renzi, le sue abilità “comunicative” erano la prova di una scarsa profondità dei contenuti, di un’incapacità non solo di fare politica, ma anche di possederne di strumenti di base. Esteriorità per nascondere il nulla: “fra qualche mese si scoprirà che dietro non c’è nulla”, profetizzò qualcuno.
Ma, ancora una volta, gli osservatori hanno sbagliato bersaglio. Mentre essi puntavano il loro dito sull’evanescenza di una comunicazione supplente alle capacità politiche, Renzi era già un passo avanti. Alla comunicazione, che prevede flussi da regolare, da indirizzare, da influenzare, da spingere, egli aveva sostituito la narrazione. E tra comunicazione tout court e narrazione in mezzo c’è un oceano che bisogna saper conoscere e governare, sapere da dove tira il vento e prevedere quando cambierà direzione: quest’oceano si chiama, appunto, politica.
Se c’è un mistero nella vittoria ogni oltre possibile previsione del Premier nella partita per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, questo si svela nel cambio di focale operato dal Premier stesso nell’approccio a questa sfida, e nella preparazione ad essa prevedibilmente partita tempo fa, nella rinuncia al commento istantaneo ad effetto, nella postilla buona a scaldare gli animi, ma di cui dopo ventiquattro ore resta soltanto una flebile eco.
In tutto questo Matteo Renzi è stato supportato da uno strumento potentissimo, un bacino di esperienze e di idee, di professionalità e di sfumature: il Partito democratico. Grazie ad esso, ed insieme ad esso, egli ha potuto costruire una storia vincente, arrivata a tutti, semplicemente, dal bar di periferia al New York Times.
Troviamo superfluo analizzare i contorni di questa specifica narrazione: altri l’hanno fatto, meglio di come si potrebbe fare in questa sede. Vogliamo però, in conclusione, trovare una sintesi che raccolga in se il narrare e il narrato, pratica e grammatica.
C’è uno scatto, di Filippo Sensi, che ritrae Matteo Renzi e Giorgio Napolitano intenti davanti ad uno schermo che trasmette lo spoglio della quarta votazione che incoronerà Sergio Mattarella presidente della Repubblica. Quella foto è la sintesi. C’è Napolitano, il passato, la politica che ha visione, che è fuori dal tempo. C’è Matteo Renzi, l’uomo del presente, dell’immanente, dell’istantaneo, della velocità. E poi c’è quello schermo che rappresenta il futuro in divenire, dove cade in ultimo l’occhio di chi guarda. Un futuro figlio del presente, del passato, che sta nascendo e che tutti vogliono vedere come sarà, come finisce la storia insomma, che finale avrà.
Non è forse quello scatto di Sensi come una polaroid che ci sorprendiamo a trovarci in mano, fra pollice ed indice, a sventolarla per aiutare i colori ad asciugarsi, le forme a definirsi, il racconto a compiersi?
(Pubblicato su Huffington Post Italia 4 Febbraio 2015)