Il Movimento 5 Stelle, giunge, in queste ore, al termine del suo percorso di smascheramento identitario. Ciò che fino ad oggi era stato chiarissimo per l’osservatore politico imparziale, ma scafato, sembra manifestarsi limpidamente anche dal punto di vista dell’uomo della strada. Il voto contrario all’abolizione delle province (e bisogna essere chiari su un punto: per l’elettore è importante che le province non siamo più un inutile costo politico) dimostra quanto poco una forza meramente antagonista per principio, per partito preso, possa essere utile al rinnovamento del Paese. Tutto questo perché il voto al M5S non è un voto moralista, o morale, ma in ultima istanza un voto umorale.
C’è un flusso elettorale che non credo sia mai stato scandagliato dagli analisti e sondaggisti nostrani: il flusso umorale. Eppure esso è stato spesso decisivo per orientare in un senso o nell’altro le sorti di una consultazione. Il voto umorale, afferente alla bile, ha avuto, nel passato, propri zoccoli duri all’interno dei vari schieramenti, ma anche una componente flessibile, non schierata: una sorta di centro (di gravità) umorale.
L’elettore che assume questo atteggiamento non è raro da incontrare. Anzi rappresenta forse la reale maggioranza apparente (perché loquacissima) del così detto Paese reale. Il suo è un approccio tutto negativo, negativista. E’ colui il quale crede sempre al risvolto ostile di una notizia. Quello che se un politico è stato assolto, l’ha fatta franca. Che: piove governo ladro.
Fino alle scorse elezioni politiche, l’elettore umorale aveva parcellizzato il proprio voto, collocandosi un po’ a sinistra, un po’ a destra, un po’ fra le schiere padane. Il suo ampio bacino continuava, però, a risiedere fra i frequentanti l’astensionismo ad oltranza, quello che fa dire al bar: “Tu l’hai votati, io non voto”. Ora, un certo grado di umoralità è sano e persino auspicabile all’interno di ogni schieramento politico. E’ ciò che fa evitare alla politica di chiudersi in una torre d’avorio a discorrere di massimi sistemi. E’ una valvola democratica irrinunciabile. Il suo ruolo di costante opposizione, anche se sterile, risulta in qualche modo costruttivo di riflesso: aiuta cioè, non a governare con la pancia, ma a non dimenticare d’avere una pancia.
Ciò che di straordinario è riuscito a fare Beppe Grillo con il Movimento 5 Stelle è stato saldare tutte queste componenti della fazione umorale e raccoglierle sotto un’unica bandiera. Un’operazione condotta grazie alle sue grandi doti attoriali e approfittando del momento più alto di disaffezione alla politica tradizionale della storia repubblicana. Il programma del M5S è un manuale di umoralità. Non c’è una linea politica, ma è un elenco di cose che: “fanno incazzare la gente”. Di per sé quindi argomenti che la politica deve affrontare e risolvere, ma inevitabilmente all’interno di un progetto che abbia dei margini di fattibilità.
In questa sede, perciò, fatte queste premesse, ci interessa capire quale futuro possa avere un movimento costruito su queste basi. Per farlo dobbiamo sgomberare la mente da qualsiasi pregiudizio, anche da quello (personalmente valido) che sia assurdo pensare che destra e sinistra non esistano. Il nostro compito è comprendere se, e come, un corpo elettorale umorale possa essere in grado di esprimere un voto maggioritario, e una volta espresso quel voto, di conservare la fiducia in una maggioranza così costruita.
Per dare una risposta al nostro quesito, abbiamo bisogno di scomodare due grandi intellettuali del nostro tempo: Michail Bachtin e Umberto Eco. Il primo, introducendo la categoria del carnevalesco medievale, ha di fatto rivoluzionato la storiografia sul periodo. Egli ci racconta di un mondo popolare intriso di tradizioni antichissime e carnali, muscolari. Una sottocultura, un underground ante litteram. La massima espressione di questo mondo è proprio il teatro carnevalesco, il teatro del basso, della scatologia, della sessualità, del macabro urlato e capovolto. Insomma, un repertorio a cui Grillo fa spesso ricorso. Il secondo, Umberto Eco, nella sua riflessione Sette anni di desiderio osserva come, esempio tra gli altri, una tribù hippie sarà sempre sussidiaria ad una società borghese, avrà sempre bisogno, sia materialmente che soprattutto identitariamente di essere dipendente da essa per giustificare la propria ragion d’essere.
Insomma, un movimento che abbia come obiettivo quello di raccogliere trasversalmente il voto umorale (compreso il voto contro a prescindere, di una parte e dell’altra) dovrà scontrarsi con quello che potremmo chiamare “il complesso Bachtin-Eco”: vivere di un’identità di riflesso, speculare. Se ciò in ambito antropologico può addirittura essere una ricchezza che le minoranze di un popolo portano in dote alla collettività, in politica questo atteggiamento non può che dimostrarsi sterilissimo e inconcludente.
Nella quotidiana pratica parlamentare un gruppo costituitosi e tenuto insieme sotto la spinta di un voto umorale non potrà, per definizione, portare nessuna innovazione al Paese. Questi parlamentari, schiavi di fatto del complesso Bachtin-Eco, non potranno che esprimersi con voto contrario verso ogni provvedimento proposto dalla maggioranza, qualsiasi esso (e essa) sia: anche contraddicendo il primo punto del proprio programma, come nel caso dell’abolizione delle province, che una volta per tutte smaschera l’alibi del “valuteremo provvedimento per provvedimento“. Per difendere questa scelta, come fanno in queste ore, ricorreranno a una fumosa apologia della complessità delle pratiche parlamentari: curioso, visto che il movimento ha costruito la propria fortuna proprio criticando la stessa complessità e il suo messaggio è sempre stato immediato e semplificatorio. Nel caso specifico va aggiunto che la politica riformista è l’unico modo per contrastare questo vuoto di contenuti: infatti di fronte a riforme strutturali serie, come quella che svuota le province italiane del peso del costo della rappresentanza, l’atteggiamento umorale non può che mostrare il suo vero volto: il voto contrario è l’ammissione della propria incapacità di cambiamento, dell’impossibilità di accettare che le maggioranze siano capaci di riformare il sistema.
In conclusione possiamo riassumere che quest’oggi, consumatosi il caso “abolizione province”, come già a proposito del così detto Decreto Terra dei fuochi e della recente regolamentazione dei licenziamenti in bianco, il Movimento 5 Stelle ha dimostrato di rappresentare esclusivamente un voto di testimonianza, ma giammai un contributo al cambiamento; poiché, anche se per assurdo l’atteggiamento umorale divenisse maggioranza nel Paese, esso non può per sua natura divenire sistemico, creare i presupposti per un sistema nuovo e migliore: esso ha bisogno di un potere, di un Governo, di una maggioranza di cui essere una minoranza capovolta, sempre e ad ogni costo.
Anche quando questa maggioranza propone e vota una proposta cardine del programma pentastellato: un tradimento del mandato elettorale per ragioni intrinseche di umoralità movimentista, ma pur sempre un tradimento.
(pubblicato su Huffington Post Italia 27 Marzo 2014)