Nell’indimenticabile articolo “Il vuoto del potere”, più conosciuto come “l’articolo delle lucciole”, Pier Paolo Pasolini fa collidere temporalmente la scomparsa dei luminosi insetti notturni con la nascita di un nuovo fascismo, svuotato di potere, rappresentato da maschere democristiane incomprensibili e inconsapevoli, paravento inconsistente del vero potere: la società dei consumi.
Oggi le lucciole sono tornate. Non so se per un’innata capacità d’adattamento che le ha fatte sopravvivere alla malevolenza umana nei confronti del creato o se piuttosto la meravigliosa immagine pasoliniana avesse valicato il confine fra metafora e prova entomologica: sta di fatto che nelle ultime estati abbiamo potuto osservare la notte accendersi di presepiali intermittenze autoprodotte.
L’intera opera di Pasolini è incentrata sul potere, sulle sue innumerevoli declinazioni, sull’atteggiamento dell’individuo e delle masse nei confronti di esso. Il fascismo di cui egli parla “prima della scomparsa delle lucciole” è un conservatorismo reazionario e clericale, di cui la DC si è fatta portatrice, dando voce ad una fetta consistente di Paese che era stata per un ventennio la linfa vitale del fascismo reale. Un conservatorismo svuotatosi di quei valori (o disvalori) con il trionfo del consumismo, per Pasolini il nuovo vero fascismo; insomma un conservatorismo istituzionale immobile: ma pur sempre conservatorismo. In questa sede, però, ci sembra opportuno analizzare, liberi ormai da contrapposizioni strumentali e lontani dalle dinamiche della Guerra Fredda, quale fu l’atteggiamento dell’altro grande partito italiano di massa (poiché la riflessione pasoliniana da come scontato la struttura sociale di massa), cioè se il Partito Comunista Italiano, e le sue declinazioni successive, sia stato, e come, e quando, altrettanto conservatore.
PRIMA DELLA SCOMPARSA DELLE LUCCIOLE
Il ruolo del PCI nella Resistenza, come è notoreo, è stato preponderante. D’altro canto la Liberazione, avvenuta indiscutibilmente grazie all’intervento degli Alleati, si poneva come una linea di confine. Il nuovo assetto mondiale escludeva ipso facto la possibilità di un PCI al governo in Italia. Consapevole della situazione, Togliatti optò per la scelta democratica nel momento in cui decise di far partecipare il PCI alla redazione della Costituzione, ben conscio del fatto che, per decenni, il PCI non avrebbe potuto avere una maggioranza per un governo autonomo. La sua fu una svolta riformista sotto due punti di vista: abbandonare la strada rivoluzionaria e pianificare una strategia di contropotere partecipativo.
Il baricentro della Costituzione Italiana è di fatto volutamente variabile: valorialmente spostato a sinistra, istituzionalmente immobilista e votato alla conservazione (il bicameralismo perfetto è, a titolo di esempio, un meccanismo di controllo nato per l’esigenza di bilanciare due grandi forze contrapposte, ma anche un ostacolo tout court al riformismo). Un PCI condannato all’opposizione, certo, non coinvolto nella gestione e nell’organizzazione del potere, ma nel contempo trasformato in un contropotere, un paese nel paese, un popolo nel popolo; specularmente, la “via italiana al socialismo” è innegabilmente una scelta di partecipazione democratica, non isolazionista, una scelta in potenza riformista e progressista. Con lo sviluppo, e la nascita di una consapevolezza, la classe operaia divenne forza reale, organizzata: il PCI cresceva, e in seno al Paese maturava questa realtà seconda, che non era esclusiva dell’operaio (non “l’autonomia operaia”, per capirci), ma anzi raccoglieva anche, ma non solo, gran parte degli intellettuali italiani (chi più o meno opportunisticamente: e ciò dimostra già di per sé che si trattava di allinearsi ad un potere).
In quello snodo, siamo alla metà degli anni ’70, la grande intuizione di Enrico Berlinguer fu quella di comprendere che, come fu impossibile per Togliatti, così per il suo partito sarebbe stato impossibile governare autonomamente; forse neanche moralmente auspicabile, giacché la classe operaia rappresentava una grande forza del Paese, ma in fondo pur sempre una minoranza. La sua idea di alleanza con le forze riformiste della Democrazia Cristiana, il Compromesso Storico, avrebbe, nelle sue intenzioni, impedito un saldamento eterno ed inevitabile delle forze di centro con quelle della destra reazionaria, spianando la strada a quelle riforme che ancora oggi aspettiamo.
Insomma per Berlinguer, almeno in questa sua fase politica, una sinistra non poteva essere tale se non partecipando alla riforma dello Stato e della società: l’alleanza con i democristiani “illuminati” appariva come l’unica strada praticabile. Sappiamo tutti come è andata. Sappiamo che l’assassinio di Aldo Moro pose fine a quella fase politica e alle speranze di Berlinguer di trasformare il PCI, da un partito di contropotere ad un partito di governo, una sinistra di governo.
DURANTE LA SCOMPARSA DELLE LUCCIOLE
Dopo quella primavera del 1978 nulla sarò più lo stesso per la politica italiana. Ma a maggior ragione tutto cambierà per il Partito Comunista e per Enrico Berlinguer. Lasciatosi ormai alle spalle da un decennio il punto più alto del suo contributi riformista, lo Statuto dei Lavoratori, il PCI vede, nei cinque anni che separano la morte di Moro da quella di Berlinguer, il leader comunista intraprendendo un percorso opposto a quello del Compromesso Storico, sembra interiorizzare il contropotere comunista non più come uno strumento, ma come la base per la creazione di un’alterità, un’alienazione. Meglio di quanto potrei fare io, scrive Francesco Piccolo nel suo “Il desiderio di essere come tutti”:
“Una proposta all’Italia civile e moderna è un ritratto nero dei tempi, tutto negativo sui valori nuovi. E’ un appello a una parte del Paese, quella comunista. (…) La relazione del congresso, in fondo tra le meno interessanti della lunga carriera di Enrico Berlinguer, si caratterizza per una scelta definitiva: non far parte del mondo dominato da potere, cinismo, egoismo e infine superficialità. Nella sostanza Berlinguer (…) intraprende un atteggiamento più ampio: questo non è il nostro mondo, noi ce ne tiriamo fuori per farci custodi di valori che non devono essere perduti”.
In pratica, un aventino ideologico.
DOPO LA SCOMPARSA DELLE LUCCIOLE
Quest’ultima scelta identitaria del leader comunista, unita allo scontro con il PSI di Bettino Craxi sulla scala mobile e il trattamento indecoroso di cui fu oggetto lo stesso Berlinguer al Congresso Socialista dell’83, segneranno per un trentennio le scelte, gli atteggiamenti e soprattutto la mentalità del popolo di sinistra e dei suoi dirigenti. L’improvvisa scomparsa di Berlinguer lascerà una profonda impronta nelle coscienze: le sue ultime parole, il suo ultimo messaggio politico, diventerà il messaggio, la linea: l’anima. Ciò che avrebbe dovuto rappresentare un passaggio della strategia politica della sinistra italiana, acquisterà il grado di una sacralità inattaccabile. E ciò a danno del riformismo che era stato lo spirito poco visibile, ma decisamente tangibile della sinistra stessa nei primi trantacinque anni repubblicani. La comparsa sulla scena politica di Berlusconi, con il suo profilo ideale per alimentare una reazione identitaria di risacca, unita all’eclissi dell’odiato Craxi e del suo PSI per via giudiziaria, non farà che aggravare i sintomi di questa crisi d’accerchiamento, provocando una progressiva chiusura a riccio, nonostante i tentativi di riformare nome e orizzonte programmatico del partito. Il sostanziale fallimento delle esperienze di governo prodiane rivelano quanto poco la sinistra italiana abbia in realtà creduto a quel progetto: costantemente in bilico fra la lotta e il governo, fra la volontà riformista e la tentazione di considerare la realtà troppo irrimediabilmente fascista per essere governata.
Questa cristallizzazione ha generato un blocco del sistema. Da una parte le destre, conservatrici per natura, dall’altra la sinistra, immobile e unicamente impegnata nelle difesa del già conquistato: lo status quo.
IL RITORNO DELLE LUCCIOLE
Ma oggi qualcosa è cambiato. La società di massa si è in qualche misura disgregata, parcellizzata sotto la pressione degli strumenti donatici dalle nuove tecnologie e dal crollo sostanziale dello scontro d’appartenenza fra universi ideologici. Attraverso un lungo travaglio, giunti sul baratro dell’abdicazione alle forze populiste, sacrificato anche definitivamente l’alibi prodiano, la sinistra italiana si muove su un nuovo percorso. L’elezione a Segretario di Matteo Renzi porta il Partito Democratico al superamento della sua natura identitaria, all’aventino ideologico dell’ultimo Berlinguer, ai suoi tabù sulla purezza. Non è da trascurare che ad operare questa trasformazione sia una generazione che non ha subito la lacerante esperienza della scomparsa di Enrico Berlinguer; una trasformazione a cui concorre un popolo di trenta-quarantenni provenienti dalle esperienze più svariate e dalle diverse correnti o mozioni congressuali. La figura di Matteo Renzi, con il suo carisma, ha fino ad oggi attirato su di se la totale attenzione degli osservatori politici; ma non è soltanto Renzi o il renzismo che sta cambiando la sinistra italiana: si tratta di una vera svolta generazionale, legata ad un mutato atteggiamento nei confronti della res pubblica, della società, dei valori e dei rapporti umani. Un riformismo che vuole definitivamente liberarsi della conservazione malcelata e mostrare chiaramente dove questo atteggiamento psicologico è annidato: a destra. La nuova sinistra italiana, incomprensibile senza una profonda competenza delle dinamiche dei social media, vivrà di molte luci, ognuna impegnata a rendere meno scura la notte: così è infatti la nuova società, superata quella di massa: tante individualità ipercollegate. Una sinistra in atto, più che del pensiero. Che guarda al futuro, più che al passato. All’opportunità più che alla garanzia.
Insomma, le lucciole sono tornate, ma non sono uno sciame indefinito. Ogni luce è un richiamo che corteggia a suo modo non solo altre lucciole, ma anche l’occhio di chi guarda.