Il mio contributo quotidiano voleva essere il racconto di un viaggio. Con un antefatto.
Ci sarebbe stato, all’inizio di questo racconto, Marcello Mastroianni, in un vecchio film. E un pullman. Una gita, un dopolavoro. Mastroianni, fra colleghi sguaiati e scrocconi, si muove annoiato, disilluso, stracolmo di dubbi, sotto il peso di un vuoto esistenziale incolmabile: insomma, il Marcello di tanti suoi film. (Fine dell’antefatto).
Il mio personaggio, altro uomo in un altro tempo (immaginatelo se volete con il volto dell’attore di questo antefatto) si sarebbe riparato sotto un ombrello, in una piovosa mattina romana di primavera. Avrebbe atteso un pullman, il mio Marcello trasfigurato, dalla destinazione incerta; ma il mio Marcello, come quello del film, non sarebbe stato un Marcello sereno. A dispetto dell’aria di festa, dell’allegra comitiva, dell’entusiasmo del gruppo che l’accompagna, un gruppo di recenti vincitori, avrebbe avuto occhi tristi. Si sarebbe accomodato sul suo sedile, senza neanche sceglierlo, in preda a pensieri oscuri. Avrebbe rimuginato sul senso di quella gita, sulle parole che sarebbero state scelte, e alle tante altre che erano state scelte nei giorni precedenti, nei mesi precedenti, e a tutte quelle che sarebbero state scelte il giorno successivo e in quelli a venire. Avrebbe pensato alle parole, il mio Marcello triste, con lo sguardo triste sull’uggiosa campagna romana. E una parola più di tutte le altre avrebbe rimbombato fra le pareti dei suoi pensieri: lavoro. E poi altre a ruota: dignità, Civitanova, manovale, quattrocento, vergogna, Romeo, Anna, Giuseppe e ancora dignità. E colpa, colpa, di chi è la colpa? Un ghigno cattivo a questo punto avrebbe deturpato il volto del mio pseudo-marcello: tutta colpa loro, che ci hanno rubato il futuro! Ma poi avrebbe posato la testa sul vetro e socchiuso gli occhi: sarebbe stato troppo vero, il nostro Marcello afflitto, per non pensare: e adesso, che fare?
Avrei voluto scrivere del viaggio di Marcello. Ma sono troppo triste. E se Marcello è triste quanto me, più triste che incazzato, magari un giorno potrò parlare con lui, e non avrò bisogno d’inventarlo.