Ho sempre aspettato il giorno delle elezioni con una passione infantile, con quell’ansia bella che non ti lascia dormire la sera prima della gita scolastica. Questa volta no.
Parafrasando l’ultimissimo Eduardo, ogni volta, entrando nel seggio, “mi batteva forte il cuore”. Questa volta no.
Ci sono molte e diverse ragioni. Sono ragioni solo mie e altre, da quello che leggo in giro o che ascolto da amici e conoscenti, condivise: dicono forse qualcosa del tempo in cui viviamo.
Ho quasi quarant’anni. Ne avevo sedici quando Berlusconi scese in campo e per vent’anni ho vissuto la politica, come quasi tutti in questo Paese, in modo manicheo. Da una parte loro, brutti e cattivi, dall’altra noi, buoni e giusti. Sono cresciuto, nel frattempo, e so, come dovrebbe sapere credo ogni adulto, che il manicheismo è una soluzione di comodo, che la realtà è sfaccettata e che chi si crede l’unico portatore della verità non soltanto sbaglia, ma spesso è pure pericoloso.
Nonostante questo sono consapevole del fatto che la mente, per quanto elastica sia, conserva le forme che si è data negli anni e su quelle continua a valutare il mondo. Da una parte noi, dall’altra loro. Due idee diverse di Paese, ci si confronta, anche aspramente. Poi si vota: chi vince governa, chi perde fa opposizione. È una banalità, lo so. È il principio su cui si basano molte democrazie moderne, nonostante non sia assolutamente l’unico modo di interpretare la democrazia. I più puntigliosi, lo so, mi faranno notare che non è neanche il nostro modo, giacché viviamo pur sempre in una repubblica parlamentare, che dovrebbe arrivare alle scelte più attraverso il dialogo che attraverso la contrapposizione, nella sintesi più che nell’antitesi.
Sia come sia io non riesco a farmi piacere l’orizzonte politico di questi ultimi mesi. Non mi appassiona, non vi trovo nulla che valga uno slancio. Sono cresciuto in un humus maggioritario, la proporzionalità mi deprime. Neppure mi entusiasma il nuovo bipolarismo, quello fra populisti e integrati: trovo ragioni valide in chi lamenta una scarsa partecipazione del cittadino comune alla Cosa Pubblica, in chi chiede che non siano sempre gli stessi a rappresentare tutti; parallelamente trovo i governi e le aspirazioni macroniane, dove dentro c’è di tutto, risposte pallide se non pavide. Inutile che vi dica cosa penso dell’altra parte: dei Salvini, dei Di Maio con “i taxi del mare”, dell’eterno Silvio sempre uguale a sé stesso.
E qui naturalmente veniamo al Che fare, come diceva quello. Non ci piove sul fatto che la destra in tutte le sue declinazioni sia l’avversario alla mia idea di Paese contro cui battersi senza fare troppo gli schizzinosi. E certamente Francesco Costa ha scritto in modo chiarissimo le ragioni per cui è giusto farlo, e l’unico modo in cui farlo. Anche Luca Sofri ha replicato però con argomenti molto sensati, e cose più vicine a quelle che vorrei affrontare qui oggi le aveva scritte qualche mese fa quando aveva parlato di riflusso nel privato; non è tanto importante quello che voterò domenica, alla fine voterò dalla mia parte, che è sempre quella, piuttosto il fatto che questo non mi dia la totale consapevolezza di costruire qualcosa, di essere parte attiva del mio tempo, di orientare il mondo.
Sì, di orientarlo. Perché quando sei giovane hai opinioni precise su tutto. Invecchiando su moltissimi argomenti tutto diventa più sfumato, tanto che talvolta mi sembra d’essere diventato il Belbo de Il pendolo di Foucault che al tipo che con tutto sé stesso difendeva la rivoluzione copernicana di Kant replicava: “l’uomo aveva certo del genio. Ma avrà poi voluto fare tutto quel casino…” (con il risultato che per molti amici sono un disfattista, per mio fratello un rompicoglioni). Se su moltissimi argomenti le opinioni si sfumato, su certe idee di fondo, su certi valori però si diventa irremovibili: è il tuo osso di seppia. A me succede sul tema dell’immigrazione. Mi succede, e in quel caso, vedete, la passione è immutata, quando rileggo Primo Levi (spesso), quando viviamo i giorni della memoria e twittiamo e piangiamo, senza accorgerci, o dimenticando, che ogni giorno è un giorno della memoria, che migliaia di persone, centinaia di bambini muoiono annegati nel nostro mare: senza nessuna colpa, esattamente come chi moriva nei campi di concentramento nazisti, se non d’essere nati in un luogo diverso, senza nessuna colpa se non la speranza. Ecco, non trovo nella politica nei partiti o nei movimenti un modo per far sopravvivere il mio osso di seppia, non lo trovo più.
In questo, naturalmente, ci sono anche ragioni personali, come ricordavo all’inizio. Circa un anno fa ho perso il lavoro. Era un lavoro comune, con uno stipendio di sussistenza, ma che mi lasciava anche un po’ di tempo libero per occuparmi delle mie passioni. Succede. Può succedere a chiunque, e non crediate che dia la colpa alle politiche del governo per questo: non era comunque il mio lavoro. Da allora ho deciso di riprendere gli studi abbandonati più di un decennio fa e fra qualche giorno discuterò la mia tesi. Sapete una cosa? Nello studio ho trovato ciò che nella politica non trovo più. Ho riscoperto la passione: “un’opera di chimico che pesa e divide, misura e giudica su prove certe, s’industria di rispondere ai perché” (sempre citando Levi). E non importa che io non mi occupi di elementi chimici ma di parole, che la mia materia non sia il cromo ma la letteratura o il modo in cui l’immigrazione viene raccontata (che è poi la materia della mia tesi di laurea). È il mio riflusso nel privato, ma non è una fuga; non penso che non cambierà mai nulla, che la realtà sia irrimediabilmente sporca e che la politica ne sia un riflesso. Penso che non potrò mai smettere, come chiunque, di voler far assomigliare il mondo al mio osso di seppia: solo che per farlo bisogna essere innamorati. Io ho amato tanto la politica. Ma quando si smette di amare non ci puoi più far nulla. E non vedo perché in questo caso dovrebbe essere diverso.