Il berlusconismo non esiste, il centrodestra sì

I miei alleati. Non erano nessuno. Erano fascisti. Li ho portati al Governo, li ho fatti diventare ministri. Erano democristiani. Che si flagellavano, che si battevano il petto in mezzo alla strada. Li ho rassicurati. Quelli della Lega Nord, poi. Tutta Europa mi diceva: “Stai attento, sono razzisti. Stai attento”. Li ho fatti ragionare. Ho portato al Governo anche loro, nonostante mi insultassero. E mi dicessero che ero un mafioso. Tutti al Governo ho portato. Tutti. Ce ne fosse uno che mi ha telefonato, oggi.

Così, attraverso la fredda maschera di un Moretti capovolto, ci parlava il Caimano nel celeberrimo finale del film omonimo. Nel suo viaggio verso il Tribunale di Milano, verso la condanna definitiva, ripercorreva i vent’anni della sua era di potere, la storia di una grande onda, di un’epoca culturale, vent’anni d’odio e di alleanze in nome di un progetto raccolto attorno ad un nome: Silvio Berlusconi.

Quella condanna c’è stata, nella realtà, fuori dai fotogrammi e dalle metafore, e le conseguenze sono state diverse da quelle profetizzate dal grande regista romano. Il Caimano non ha aizzato la piazza alla rivolta violenta, alle barricate, alle molotov, ma in progressivo decrescendo ha ipso fatto accettato la pena sostitutiva dei servizi sociali, sub iudice rispetto ad ogni eventuale attacco alla magistratura dello stesso Berlusconi, che potrebbe immediatamente spedire il condannato agli arresti domiciliari. L’anziano potente presterà servizio presso una casa di riposo, un luogo per definizione della serenità: nulla di più lontano da una guerra di piazza.

Non vogliamo in questa sede arrampicarci in analisi para-psicologiche o meta-narrative, non vogliamo raccontare quali forme prendano le luci e le ombre di questo crepuscolo e se di crepuscolo si tratti, ma cercare di seguire le linee di una storia, di un’epoca, di una parte del Paese e della classe dirigente che l’ha rappresentata, in un nodo storico in cui sembra dominante la tendenza degli osservatori a registrare il declino definitivo di quell’area, il suo disfacimento, se non la sua polverizzazione in nome di un nuovo bipolarismo che vedrebbe trionfanti il Partito Democratico di Matteo Renzi e il Movimento 5 Stelle guidato dal capo politico, sempre meno capocomico, Beppe Grillo.

Per non farci fuorviare dalle impressioni, dagli umori, dalle rappresentazioni della realtà di secondo e terzo livello che spesso hanno coinciso con la narrazione stessa del berlusconismo dobbiamo rimanere ancorati ai numeri. Nel 1994, Forza Italia, trionfatrice indiscusso delle elezioni politiche, totalizzò per la quota proporzionale per la Camera il 20,3% dei consensi. Cioè soltanto un elettore su cinque scelse il partito guidato da Silvio Berlusconi. Diversi, certo, grazie al sistema dei collegi uninominali, furono i risultati per la quota maggioritaria, nella quale il Cavaliere differenziò le alleanze, scegliendo al Nord la Lega (Polo delle Libertà) al Sud Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini. L’alleanza eterogenea ottenne la maggioranza assoluta dei seggi sia alla Camera, sia al Senato, segnando la grande sconfitta della Gioiosa Macchina da Guerra di Achille Occhetto e precipitando la Sinistra italiana nello psicodramma berlusconiano da cui solo oggi riusciamo a svincolarci.

Ma la domanda nodale da porsi oggi, a vent’anni di distanza è: fu per B. vera gloria? Fu quella una vittoria esclusiva del messaggio di Silvio Berlusconi, del suo potere comunicativo, della promessa di un’Italia più moderna, a misura della sua azienda e delle sue televisioni? E ancor meglio: quale fu il ruolo dei suoi alleati?

Ritornando ai numeri, scopriamo che in quella stessa quota proporzionale della Camera, AN si attestò al 13,5% e la Lega Nord all’8,3%. Non sembrerà capzioso osservare che la somma dei due partiti supera il risultato ottenuto da Forza Italia. Accettando indiscutibilmente il ruolo di traino del movimento guidato dal Cavaliere, appare assolutamente evidente come la sua vittoria sia stata innegabilmente una vittoria da co-protagonista, nonostante la vulgata storica, la tradizione e l’effetto che questa vittoria ebbe sugli avversari politici.

Le ragioni di questo sostanziale spacchettamento del voto sono assolutamente tematiche. La figura di Silvio Berlusconi non ha fatto che da collante fra sentimenti ed esigenze intrinseche nel Paese.

Convergenti verso di lui, ma spesso anche divergenti reciprocamente. Egli ha incarnato l’alterità ad una sinistra identitaria, convinta della propria purezza ed estraneità al potere, ma di fatto coinvolta da decenni nella gestione della cosa pubblica, e che per molti italiani appariva ipocrita. Un anticomunismo dai molti volti, ma certo meno ingenuo di quello spesso invocato nei comizi dallo stesso Cavaliere. In tutto ciò, sulla scia di Tangentopoli, l’odio viscerale verso il politico tout court del passato, faceva apparire come “il nuovo” non soltanto il vincente imprenditore milanese, ma anche gli eredi del Movimento Sociale (rimasti pressoché esclusi dalle scelte nei precedenti quarant’anni del dopoguerra) e i leghisti, che al grido di “Roma ladrona”, non dovevano certo apparire collusi.

Tracciando i contorni della genesi al voto maggioritario italiano verso il centrodestra abbiamo voluto, non senza semplificazioni, mettere in risalto l’importanza, sia come sostanza elettorale, sia come origine culturale, del voto degli alleati del partito di Silvio Berlusconi. Questo contributo non è stato soltanto iniziale, ma è continuato per tutto il ventennio in esame. Nel 1996, Forza Italia 20,6%, AN, 15,56% (la Lega, che in quel caso corse da sola, si attestò all’10,07%). Nel 2003 Forza Italia 23,72% Alleanza Nazionale 12,34%, Lega 4,58%. Alle elezioni europee del 2004: Forza Italia 20,93%, AN 11,49%, Lega 5%.

La rivoluzione del predellino, che Berlusconi ammise di non aver mai totalmente digerito, rappresentava, a fronte di quanto detto, un’inversione di percorso. L’aggregazione diveniva esclusiva e la libertà di scelta all’interno dell’area rimaneva limitata alla Lega Nord. La nascita del Popolo delle Libertà rappresenta in realtà proprio il tentativo di costruire plasticamente questa identità di centrodestra maturata dalle ceneri della Prima Repubblica. Ma la sua struttura con il tempo risultò assai meno agile e orientabile a favore dei vari umori della base, monolitica, rispetto alle declinazioni del voto diversificato.

Il centrodestra italiano esiste, dunque, oltre Silvio Berlusconi. Esisteva prima di lui, trasversale ai partiti della Prima Repubblica. È esistito nei vent’anni in cui il Cavaliere ne è stata l’incarnazione ad un tempo redanciana ed istituzionale. È una visione del mondo conservatrice, in tinte nostrane, ma non molto dissimile dalle altre destre europee. Che nella varietà tonale delle scelte in quel campo trova la propria sintesi. Un’identità molto meno di pancia di quanto si possa credere. È puerile oggi raffigurare questa realtà come un ritratto fiammingo del benessere, una disperazione rovesciata, un agio stanco, avvizzito, monocolare, bizantino.

I tratti distintivi del Movimento 5 Stelle sono troppo lontani da quel mondo: ciò che poteva essere captato, lo è stato alla scorsa tornata elettorale, calamitizzando in qualche modo l’elettorato Striscia la notizia, l’elettorato Le iene: trasversalmente. Il M5S non sfonderà a destra fra gli anziani: troppo diverso l’universo valoriale, troppe urla, troppa sguaiatezza, troppa fiducia nei poteri messianici della rete. Non sfonderà fra gli adulti, inseriti, fra i professionisti ed imprenditori che sono lo scheletro portante dei moderati italiani: troppo meta-ideologico il Movimento di Grillo, sempre il principio prima dell’azione, l’idea prima del risultato. Non sfonderà fra i giovani ambiziosi, competitivi, che hanno l’azienda come modello e il successo professionale come obiettivo. Giovani ultrapragmatici a cui l’onorevole-cittadino, il volontariato nelle istituzioni, non può che sembrare una caricatura.

Soprattutto, il M5S non sfonderà a destra perché il berlusconismo politicamente non esiste, né è mai esistito. Ciò che abbiamo definitivo con questa espressione in realtà non è un fenomeno univoco, monodirezionale, ma un universo, una costellazione etero-condotta ed etero-prodotta. Nel corso di un ventennio per consapevolezza interna e di riflesso ciò che era una nube ha generato un’identità, supplementare a quella originaria. Se il berlusconismo è stato un aggregatore culturale, di costume, l’identità collettiva maturata nei lustri di governo e di presenza sulla scena politica della coalizione guidata da Silvio Berlusconi è invece reale, tangibile e difficilmente superabile in tempi brevi. Più di tutti ne è consapevole l’ex Cavaliere che rinuncia a concentrare il consenso sulla sua persona, ma parcellizza gli orientamenti. Forza Italia per i tradizionalisti, la Lega per la battaglia contro l’Euro, NCD per i governativi, Fratelli d’Italia per un approccio di destra sociale, di lotta, non lontana dalle posizioni parlamentari grilline. Ci si divide certo, ma all’interno dello stesso campo, della stessa famiglia, dello stesso bacino elettorale.

Il M5S non sfonderà a destra perché in Italia, contrariamente alla vulgata, esiste un’identità di centro-destra; figlia della mai nata Seconda Repubblica, essa tende sempre di più ad assomigliare a quell’atteggiamento di purezza-impurezza (identitario, appunto) che ha caratterizzato la sinistra italiana degli ultimi decenni. Insomma il berlusconismo culturale, generando una sinistra immobile per contrapposizione, ha di fatto anche cristallizzato il centrodestra, dopo un ventennio, all’interno dei contorni di un popolo, di un somigliarsi generalizzato. Forma mentis che difficilmente porta ad una vittoria elettorale, ma che anche protegge da crolli devastanti.

(Pubblicato su Huffington Post Italia 29 Aprile 2014)

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