Perché la Tv e i social non hanno ancora un alfabeto comune

La rete e la TV. Da qualche anno il dibattito sull’informazione, non solo politica, sembra ruotare attorno ai modi e alle forme dell’interazione fra questi due canali. La rete che improvvisamente diviene “i social”, poi twitter che assume il ruolo di News Network, e l’informazione e la notizia che lì nascono, germogliano, si diffondono acquisendo la dignità appunto di notizia e arrivano agli altri media, per caduta, e quindi alla tv.

Twitter come un laboratorio, camera d’incubazione dove si separa il grano dal loglio, anche misurando il grado di interesse di un pubblico che si presume vasto e che da risposte immediate. La Tv che segue male i social, che rimane indietro, pietrificata, che usa i social solo come un Auditel, tweet come sms, facebook come La posta del cuore.
Tutto cambia velocemente, nell’era in cui anche il tweet sembra superato. Nei giorni in cui si dice che lo stesso Twitter si trovi in profonda crisi di partecipazione, cristallizzato, radicato soltanto nei propri nativi, aggrappato, anche dal punto di vista commerciale, alle star: come la TV.
I dati, anche dal punto di vista commerciale, ci dicono d’altro canto che il mobile continuerà a crescere. Che il prodotto continua a tirare seppur in una totale confusione, in un magma in cui si muovono sprovvisti della medesima bussola, adolescenti e sessantenni, smartphone alla mano, senza sapere poi neanche perché. I dati ci dicono contemporaneamente che la TV resta regina, pesante, dal punto di vista della costruzione delle opinioni. Un monolite domestico, ancora autorità.
La nota di fondo a questo racconto è che questi due media non si sono mai contaminati, mescolati, sono rimasti acqua e olio, magari in proporzioni diverse, ma sempre separati; raramente si è cercato un alfabeto comune, raramente si è sperimentato per trovarlo (segnaliamo, di passaggio, che Google ha scelto di trasformarsi in: Alphabet). Periscope può essere una strada, social e TV, prodotto professionale per una star fruibile da un vasto pubblico e contemporaneamente opportunità per l’utente sconosciuto di talento di mostrare le proprie capacità nel campo dei media in tutte le sue declinazioni.
Lo ha fatto, nel bene, questa settimana, nel nostro palinsesto, contemporaneamente a Carlo Freccero che vedeva per il futuro della TV italiana uno show Grillo-Celentano, un quarantenne del Queens, Jon Jacques, che stanco della propria routine professionale, seppur remunerativa, invece di dirottarsi misticamente in India come gli omologhi insoddisfatti degli anni settanta, o di scegliere la campagna come più recentemente gli altrettanto insoddisfatti coetanei, ha inventato un Telethon personale, e l’ha fatto con Periscope. Un crowfunding istantaneo, giochi di magia, semplici ma immediati, come la TV semplice di una volta, quella che ancora funziona, quella delle innumerevoli riproposizioni format della Corrida. Poi 22 milioni di cuoricini, e gli investitori che arrivano, perché se si vede, se tanti lo vedono, ci si può guadagnare.
Lo ha fatto, nel male, un giovane romano, dalla sua stanza, in un primo piano che ricordava il Robert De Niro allo specchio di Taxi driver, raccontando orgogliosamente l’aggressione ad un ragazzo gay colpevole di aver fatto un complimento (“sei carino”) durante una partita alla playstation; ma non è racconto anche questo, informazione, servizio pubblico nel senso più ampio? Non è il nostro Paese, anche se in una declinazione deprecabile, visto da vicino?
Costruire un alfabeto che sia una contaminazione di strumenti molto potenti inevitabilmente destinati a mescolarsi sembra dunque la sfida di questa nuova fase dell’approccio ai media.

Sperimentare in questo senso anche attraverso il live broadcasting, la TV che ti sta in tasca, Periscope e i suoi fratelli, un’opportunità certo più affascinante della riproposizione stantia di eventi logori, da fruire immobili e muti, nel solco del divano.

Seconda puntata della rubrica #periscoppio, pubblicato su unita.tv 12 Agosto 2015

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