SpotornoSubito: un collage da 1 a 100

Da tre giorni penso a questo momento. A quando avrei aperto un foglio vuoto di Pages e riversato i volti e le parole appuntate nella memoria e in qualche tweet. Da tre giorni cerco di usare metodo nella selezione delle emozioni, degli incontri, degli sguardi diSpotorno Subito. Ma adesso che quel momento è arrivato ho in mente solo due pensieri: evitare di imitare lo stile di Annalena Benini, giacché ne verrebbe una brutta copia, e come usare in una narrazione le tavole di Adriano Attus. Allora partiamo da lì, che può essere che il resto venga da sé.

Provate ad immaginare cento numeri, da uno a cento, ritagliati dai giornali di tutto il mondo. Numeri piccoli, grandi, dalle sfumature di colore più diverse. Alcuni più vivi, patinati, altri più timidi. Precipitateli su un foglio, senza una regola, se non quella del gusto dell’occhio, del colore che cerca l’affinità con il proprio simile. Il risultato è un vortice arlecchinesco che ti risucchia non appena intraprendi il gioco che l’artista ti suggerisce: quanto ci metti a contare fino a cento? L’uno si nasconde, subdolo, all’interno di questa mareggiata cromatica, impossibile, ti dici: non riesco a partire. Poi eccolo, e allora arrivi di volata al 4, poi tremi, ti disperi, perdi la pazienza. Il 5 gigante, canna di fucile, è al centro, impettito come una sentinella. Arrivi al tredici, stremato, vorresti abbandonare. Ma i numeri cominciano a chiamarti, ti danno del tu, e provi quella sensazione tutta infantile, ma che per fortuna non ci abbandona mai, della vittoria ludica. 37, 54, 71. Non è un rettilineo, ma una strada come quelle nostre, della costa ligure, fitte di tornanti con qualche breve rettifilo, per farti riprendere fiato. 81, 82, 83. Vedi il traguardo, è l’ultimo chilometro. Ma come il ciclista che continua a voltarsi temendo il ritorno del gruppo, ti assale l’ansia che il prossimo quadratino voglia incarnare la vendetta dei compagni già sconfitti: temi il tana libera tutti. Il mio 100 era minuto ed arancio pallido. L’ho cliccato con poca delicatezza e ho guardato l’orologio del cellulare. Undici minuti. Poi ho aperto lo sguardo sulla tavola tutta, con il piglio del vincitore. È successo nella frazione di un attimo: una visione. Ho avuto come l’impressione che come in un cubo di Rubik nelle mani di un bambino irrequieto, i numeri si riposizionassero, i colori cambiassero pelle. Un lampo di movimento futurista dopo il quale non sarei stato più in grado di ripetere la conta.

Mettere in fila un diario del mio Premio Internazionale del Giornalismo SpotornoSubito è un’operazione simile, ma orfano di un ordine numerologico, posso affidarmi solo ai colori nella loro declinazione emotiva: tasselli di discorso, schegge di sorrisi, scie di concetti. C’entra, in tutto questo, il mio non essere giornalista. C’entra un misto fra il timore d’intromettermi in un dialogo fra persone che si conoscono da tempo, che condividono una professione così particolare, amata ed odiata dal mondo fuori e la mia vocazione all’espansività, la mia deriva monologhista, la mia dannata convinzione d’avere opinioni interessanti. Difficile quindi per me costruire un ritratto dai contorni precisi, separare la riflessione profondissima dalla chiacchierata al bancone del bar, la reazione all’incarnazione della parola scritta in un interlocutore, con gli innumerevoli spunti utili per ciò di cui mi occupo nella mia vita.

Nel mio collage c’è subito, all’inizio, l’umanità di Alberto Infelise. C’è, dentro di me, un pensiero che si consolida: non so se le persone pessime sui social siano migliori nella vita reale, ma di certo quelle che stimiamo, e per cui abbiamo empatia online, quando le incontriamo confermano l’opinione, anzi la rafforzano. C’è la risacca che dondola dietro Molo Sirio ed è un metronomo gentile, modesto. C’è Giuliano Ferrara, che appare e scompare dal collegamento skype, che colleziona irresistibili fuorionda nel tentativo di farsi aiutare a ripristinare il contatto con il Premio. Ci sono i bottoni di Giacomo Papi, decimatisi in un secolo e mezzo dai nostri indumenti: e io che penso chissà dove sono finiti tutti quei bottoni, chissà, come le anatre del giovane Holden. C’è la lista delle cose da non dire, da non fare a un festival del giornalismo, di cui, l’ultima, assolutamente da evitare, sono: le liste. E poi c’è il dibattito dove ci sono io. Che finisco per parlare di narrazione e forse vado pure fuori tema, ma è una coperta di Linus per evitare di rischiare di balbettare davanti a un pubblico che dall’inizio dell’evento è numeroso ed attento. C’è Daniele Bellasio che mi pone l’obiezione naturale al mio discorso, il “che fare?” a cui, veramente, non so rispondere. C’è Annalena Benini, insomma, la festeggiata, perché è lei la vincitrice del Premio nella sezione dedicata ai giovani che innovano la professione(“Primizie”). C’è Christian Rocca che condivide parti del mio ragionamento (calo dell’ansia) e Roberto Pavanello che parla di un tweet famigerato del giorno prima (aumento dell’ansia). C’è Marianna Aprile a proposito del talk, che tutti danno per morto e che, invece, vive. Ci sono Marta Cagnola e Stefania Carini, al di là dei confini dello spettacolo, con cui ho riso, a tavola, domenica, e che spero di rivedere presto. C’è Fabrizio Goria, che è così bravo che è riuscito a spiegare qualcosa di finanza pure a me, che nella materia sono una capra e c’è Federico Sarica che fa una rivista bellissima, e siccome bellissima lo è veramente tutti non smettono di dire quanto sia bella.

Poi c’è la sera, ventosa, di Spotorno. Gli aperitivi con i gruppi che si formano, si sciolgono, si ricompongono in altra forma. Parlo della comunicazione del Premier, di quella del Partito Democratico: ancora coperta di Linus. E così passa anche la cena e c’è Massimo Gramellini intervistato da Alessandra Sardoni, c’è la folla che assale il banchetto dei libri del Gramella e lui li firma, sorride, firma e ancora sorride. C’è “Via Padana Superiore”, con dentro Omar Pedrini e ho di nuovo sedici anni.
Poi c’è la sera che diventa serata, che è quasi notte.

Il giorno dopo, sabato, c’è la partita, le partite di calcio fra spotornesi e spotornauti. Dovevo esserci anch’io. Invece no. Ma credo non vi importi sapere perché.

C’è, ancora al Molo Sirio, con il vento che si è chetato e la risacca ormai afona, Luigi Zingales che parla di Europa, di cosa ci ha dato, di cosa ci toglie, di come dovremmo evitare di amarla sia come un marito tradito che incondizionatamente ama, sia come un marito geloso che incondizionatamente dubita (la metafora è mia). C’è Valerio Millefoglie che ci conduce attraverso un viaggio fra i luoghi piccoli, una cattedrale minuscola, un albergo con una sola stanza: c’è tutto di troppo, ci dice, siamo certi di averne bisogno? Ci sono Gianni Riotta e Alessandro Chessa, che ci mostrano come i Big Data possano essere uno strumento utilissimo per la professione. E si completano perché mentre il Professor Chessa narra numeri, Riotta enumera concetti.

C’è il dibatto con il vincitore del Premio “Sbarbaro”, Carlo Verdelli, che ricorda l’importanza per un giornale di ascoltare i propri lettori, scrivere per loro, sempre. C’è Luca Sofri che porta il tema dei temi: qual è la strada da percorrere per cercare un pubblico crescente e contemporaneamente conservare l’identità di una testata? Tornare alla carta, dice Stefano Menichini, per fissare l’identità, ma superare l’idea del giornale quotidiano. Ci sono i luoghi comuni dei giornali, le frasi fatte :”la fumata nera del CSM”. E c’è Stefano Bartezzaghi che dice “non ne posso più di quelli che dicono non se ne può più di”. Ci sono Francesco Caldarola e Alessio Viola che parlano di una tv che c’è, che usa la rete solo nominandola e di una tv che ci sarà, più parcellizzata, veloce, per una generazione che non si ferma immobile sul divano a guardare lo schermo. C’è Annalisa Cuzzocrea che ce l’ha su con le trasmissioni che definiscono le donne “gentil sesso”, e che sarebbe ora di dire basta.

C’è poi ancora la sera e la voce, meravigliosamente oltreumana, di Daniela Satragno. Ci sono per me e per chi c’era, e questo davvero non potrò scordarlo, memorie del Grande Bartezzaghi dalla voce viva di suo figlio, storie di chimica, di Kennedy e di una mente prodigiosa. C’e un caffè con Luca Sofri, per cui ho un timore reverenziale da ricovero: e c’è che quando hai paura di dire una stupidaggine, probabilmente la dirai. C’è Massimo Recalcati che esprime concetti immensi sull’educazione e sull’amore; e c’è il pubblico che pende dalle sue labbra e io, come direbbe qualcuno, rosico un po’ perché non sarò mai capace di presentare argomenti così profondi in un modo così immediato. Poi c’è Eugenio Finardi che si spiega e ci canta, come sa fare lui.

Poi c’è la sera che diventa serata, che è quasi notte.

È domenica, i premiati vengono premiati, nell’aria quel “l’anno prossimo” che sa di malinconia. Ancora sul molo, per il pranzo, finalmente con il sole, l’ultimo arrivederci dell’estate. E poi i saluti, le valigie per chi parte, pochi passi per me che non mi sposto di molto. E siamo al 100. Se socchiudo gli occhi i numeri e i colori cominciano a mischiarsi. Meglio mettere un punto. O, se preferite, in funzione esplicativa, due.

(Pubblicato su Huffington Post Italia 23 Settembre 2014)

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